Arrivare al nono album in 32 anni di carriera e iniziarlo con un brano come Genesis è da giganti, e i Deftones sono dei giganti della musica. Inseriti a forza nel calderone del nu-metal fin dalla prima uscita discografica, sono pressoché gli unici ad esserne usciti intatti e più splendenti di prima. Infatti, se da una parte i Korn vivono ancora oggi di rendita grazie ai primi quattro malatissimi (ma geniali) lavori, i Limp Bizkit sono giustamente scomparsi e i Linkin Park, nonostante l’odiosa rivalutazione post-mortem, sono sempre stati una band mediocre, dall’altra i Deftones hanno continuato imperterriti nella loro personalissima e riuscitissima mescolanza di musica hard ed emozionalità pura.

“Ohms” è il loro miglior album da un decennio, precisamente da quel “Diamond Eyes” che aveva fatto gridare al miracolo per essere riuscito a raggiungere le vette elevatissime dei due capolavori anni Novanta “Around the Fur” e “White Pony”. Questo non significa però che i dischi pubblicati nel mezzo siano da buttare via. Anzi, dovessimo dare un voto, sia “Koi No Yokan” che “Gore” non avrebbero un voto inferiore al sette su dieci. Ci siamo capiti, dunque, a quale grande opera ci si trovi ancora una volta di fronte.

Se la già citata open track è un mix micidiale fra urla isteriche e grandi melodie (siamo almeno ai livelli di una Hexagram, annus domini 2003), Ceremony visita il lato più introspettivo ed eighties dei Deftones, mentre Urantia rinverdisce il miracolo di far rilassare l’ascoltatore con un brano essenzialmente metal. Error e The Spell of Mathematics sono due bombette che non avrebbero sfigurato nel periodo d’oro, Pompeji riporta alla mente, almeno nelle strofe, il riuscitissimo esperimento d’inizio millennio Team SleepThis Link Is Dead e Radiant City sono emocore come solo loro riescono a farlo, Headless è il loro personale modo di suonare dark. Il finale è affidato all’esaltante title track e al suo bollente riff. Ancora una volta, come sempre, bentornati Deftones.

Andrea Manenti

 

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