Leggo in giro per la rete recensioni che inneggiano al ritorno dei Deftones come a un ritorno ai fasti di “White Pony” o “Around the Fur”, e sorrido. Sorrido perché mi pare stupido che per fare un grande album una band abbia per forza bisogno di guardarsi alle spalle. Sorrido perché i Deftones, un grande album, l’hanno effettivamente pubblicato, ma questo “Gore” è un lavoro che ha poco da spartire con la freschezza disperata di fine anni novanta.

“Gore” è frutto di un dissidio interno (che tra l’altro sembra essere sfociato nel litigio fra il cantante Chino Moreno e il chitarrista Stephen Carpenter) che vede la band in traballante bilico fra luce e buio, rumore e melodia, poesia e potenza, grezzume e innovazione. Ma proprio questo equilibrio fra le due sfere emozionali fa del gruppo di Sacramento una delle migliori alternative band da oltre due decenni.

Se dobbiamo trovare per forza una caratteristica dominante in questa ultima fatica discografica, si potrebbe citare la forte presenza degli Anni Ottanta: li si scorgono nelle chitarre mai così metallose (Doomed User, Geometric Headdress), nelle melodie vocali dal sapore pop (il singolo Prayers / Triangles, la conclusiva Rubicon) e soprattutto nel mood dark generale.

Il tutto è però ovviamente filtrato con le altre caratteristiche fondamentali della band: dalle ritmiche crossover (la title track) alle ballatone emozionali (Hearts / Wires, Phantom Bride), dai riff sulle corde più alte e armoniose seppur secche (Pittura infamante), alle urla sgraziate e piene di dolore di Chino (ancora la title track: ascoltate il finale). Un ennesimo colpo al cuore.

Andrea Manenti