Gli Adulkt Life, compagine londinese al primo album, sono una creatura mostruosa ma affascinante, estremamente variegata ma composta da elementi fra loro armonizzati. Sono una band punk, metal e brit pop. Tutto insieme. Assomigliano a tutti e quindi non assomigliano a nessuno. Leader assoluto è il cinquantacinquenne (!!!) Chris Rowley, uno che pur essendo quasi debuttante (ha fatto parte venticinque anni fa degli Huggy Bear) di acqua sotto i ponti della capitale britannica ne ha vista passare parecchia. Quindi, esattamente come una spugna, ha prosciugato praticamente tutto.

“Book of Curses”, grazie all’opener County Pride, inizia con un sax malato alla Stooges e un riff melmoso e sabbathiano, per poi passare al crossover letale di JNR Showtime dove i The Vines incontrano i Deftones e si sbronzano insieme. Whistle Country è tesa e robotica, anni ottanta ma sezione no wave, mentre Taking Hits è un piccolo miracolo che unisce l’arroganza degli Oasis a inframezzi rumoristici di scuola industrial metal.

Flipper poggia su un riff rock tradizionale che a un certo punto si tuffa in un ambiente puramente noise, Stevie K è il brano più hardcore del lotto, Room Context ricorda certi esperimenti hard di Jello Biafra, Move è punk rock ballabile, Clean (but Itchy) è il trionfo di un certo tipo di rumore tipico della seconda metà dei nineties. L’album si conclude con la ballad atipica New Curfew, post punk sbronzo, anfetaminico e sotto acido: ovviamente tutto insieme.

Se il rock pandemico (Idles, Fontaines DC, Shame, Protomartyr, etc…) dovesse essere ricordato in futuro, all’interno di questa scena gli Adulkt Life avrebbero la parte che fu degli Stranglers in pieno punk o dei Glassjaw in pieno nu metal. A loro la medaglia dell’originalità.

Andrea Manenti