Gli Afterhours uccidono, ma non vogliono morire. Uccidono perché negli ultimi dodici mesi hanno perso pezzi, cambiato equilibri e soprattutto partorito un album così crudo e diverso, Folfiri o Folfox, che fa vacillare anche l’anima più dura.

Ma non vogliono morire, nonostante le critiche, le accuse (un po’ scontate, per la verità) e gli abbandoni. Questa sera suonano a Milano, la loro città, dove dimostrare che hanno ancora i coglioni è assai più difficile. Il cielo minaccia pioggia, il pubblico non è da sold out, arriva tardi e in testa ha una sola domanda: sarà il mio ultimo concerto degli Afterhours? Perché per molti questo album è un giro di boa. Dentro o fuori, fiducia o bye bye.

Fino al quarto pezzo è difficile rispondere. Apre Grande, intensa chitarra e voce di Manuel, che vede comparire gli altri membri del gruppo solo nella seconda parte. Poi Ti cambia il sapore, Il mio popolo si fa e Non voglio ricordare il tuo nome, dove Agnelli finalmente introduce il pezzo con due parole e spezza la tensione. Perché fin lì sia noi che lui siamo stati zitti, come se ci stessimo studiando, come due fidanzati che si guardano negli occhi per darsi l’ultima possibilità.

La voce sembra un po’ vacillare, qualche parola si perde nel microfono. Sarà l’emozione o il fatto che Manuel non è proprio in forma, complice un certo dolore alla spalla che viene confessato un po’ più tardi, dando la colpa all’anzianità. “A 50 anni è difficile anche farsi una sega”.

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Partono i primi accordi di Ballata e tutto cambia. Le piccole iene tornano a farsi sentire e la scaletta non può che galvanizzarle: Varanasi, La vedova bianca e Padania. Praticamente la storia degli Afterhours in tre pezzi.

Quando Manuel si fa avanti in silenzio avvicinandosi al pubblico sembra essere arrivato il momento di una dichiarazione. Possibile che non dica niente, non sfoderi la sua proverbiale ironia, non commenti le ultime vicende? No, non c’è niente da dichiarare. C’è solo da pogare: parte Male di miele. Che funziona, funziona da dio, anche se quei suoni hanno vent’anni ormai, anche se chitarra e batteria hanno cambiato pilota. E le due new entry sembrano divertirsi parecchio, quando il frontman esce di scena e lascia sbizzarrire i suoi musicisti.

Ma torna presto: come un’epifania si manifesta al pianoforte per il pezzo più struggente in scaletta, L’odore della giacca di mio padre. Perché tutto il concerto è un gioco di incastri fra nuovo e vecchio, come a voler dimostrare che un vero spartiacque non c’è. Così si vola da Bungee Jumping a Costruire per distruggere che sul finale è un vero casino di suoni e rumori e anche Fra i non viventi che sull’album non aveva convinto, dal vivo esalta. Se io fossi il giudice chiude prima della pausa.

Al rientro ci troviamo catapultati nel 1999: su La verità che ricordavo non possono mancare il lancio del microfono e i salti come non ci fosse un domani. Chiudendo gli occhi non si è più fra il disagio di uno spiazzo di periferia. Si vola con la testa al proprio concerto preferito degli Afterhours (ognuno ha il suo, per me Villa Arconati, 2012). È il momento che vale la serata.

Da lì si rotola giù lisci nei meandri più amati e forse meno attesi: Strategie, Una canzone Pop (“Vent’anni fa non potevo immaginarmi cosa volesse dire, ora lo so”), Non è per sempre.

A questo punto, il dilemma iniziale è risolto: il pubblico chiama a gran voce perché il gruppo rientri. Nessuna frattura, sono ancora gli Afterhours. Quello che non c’è, Bianca e la classica chiusura delle danze con Bye Bye Bombay sono le ciliegine. La torta è riuscita. Sicuramente non è la più buona che abbiamo mai mangiato, ma quando il gruppo esce definitivamente lasciando la chitarra che ancora urla sul palco, noi non ci sentiamo affatto sazi.

Per me è sì.

A cura di silviaconlaesse