Milano, 22 novembre 2022

I Verdena del 2022 sono ancora la pietra grezza di un tempo. Ma anziché viaggiare a fari spenti nella notte, ora brillano di luce propria. Sono una stella esplosa nella galassia del rock. Un bagliore li precede. Un cenno in lontananza, uno ogni tanto, e in un attimo sono di nuovo pronti a stritolare il cuore dei fedelissimi. Il nuovo tour li vede atterrare su un tappeto di fan assetati di rivalsa. E allora eccoli lì, schierati in un maestoso sold out, stretti stretti e con il bollino “Scegli me” stampato in fronte.

Prima del concerto, la platea è un parapiglia di sorrisoni, di sguardi complici, brindisi concessi in fretta e furia. Perché l’attesa è tanta e ognuno vuole prendere posto. «Raggiungo gli altri, ci vediamo in giro». Il gruppo tarda una mezz’ora, ma questa sera è tutto concesso. Poi i Verdena fanno il loro ingresso sul palco. Sì, li riconosco. Non aizzano la folla, non si imbrodano nell’applauso, nessuna marcia trionfale annuncia il loro arrivo. Non irrompono: entrano e basta, senza lustrini, come si entra all’Esselunga quando hai finito il latte la domenica mattina.

Alberto Ferrari è già spettinato. Sembra uscito da una guerra punica, incuneato nella sua personalissima spirale emotiva. Il fratello Luca è avvolto nel solito fascio di nervi. Profilo basso e dedizione. La batteria è il suo scudo e la sua lancia insieme. Roberta Sammarelli, per la prima volta in tour da quando è diventata mamma, ammicca appena e imbraccia il suo basso. Timida come sempre, attende un segno da Luca per dare il via alle danze. Con loro c’è il polistrumentista bresciano Carlo Maria Toller (già nei Jennifer Gentle).

 

roberta sammarelli verdena

Sette anni di pausa sono tanti, ma la speranza è che nulla sia cambiato. Conosciamo bene l’impatto live della band bergamasca, sappiamo che l’esperienza sarà comunque forte. Ma quando attaccano a suonare, onestamente, nessuno si aspettava un approccio così diretto e brutale. Non se lo aspettava certo il quarantenne navigato con decine di concerti dei Verdena alle spalle. Non il trentenne esperto, diciamo così, che ha imparato ad amarli sull’onda lunga di “Wow”. E sono pronto a scommettere che non se lo aspettavano nemmeno i più giovani, quelli che stasera sono usciti di casa persuasi dal mito e dai racconti epici dei fratelli maggiori.

Pascolare e Crystal Ball, tratti entrambi da “Volevo Magia”, rompono gli indugi e squarciano il sottile velo che teneva il pubblico impacchettato al proprio posto. La tettonica a placche è una teoria ampiamente comprovata, ma semmai ci fosse bisogno di un’ulteriore conferma, il parterre dell’Alcatraz offre un esempio eclatante. Sotto questa pioggia di distorsioni, la massa inevitabilmente si gonfia e preme verso l’esterno. Ogni nota è un’onda sismica, ogni colpo di batteria una scossa tellurica. In casi come questi, hai poche alternative. O cerchi riparo al bancone del bar, o ti butti a capofitto nel marasma per prendere in faccia tutto quello che arriva. Non c’è una soluzione giusta e nemmeno una sbagliata. Io scelgo la seconda e non me ne pento. Questo, d’altra parte, è un treno sporco e colloso da prendere al volo.

Eccomi. Qui, sotto il palco, la potenza dei Verdena si sente tutta. Anche i suoni, seppure particolarmente saturi, si distinguono quanto basta per apprezzare la tecnica della band. Il primo quarto di concerto è interamente dedicato all’ultimo album. Come prevedibile, si adatta perfettamente alla dimensione live. Il singolo Chaise Longue perde la sua cornice acustica e si trasforma per l’occasione in una marcetta elettrica. Tutti, o quasi, puntano in alto il ditino al momento di urlare “Sola come sei, Stevie Wonder”. C’è entusiasmo e tanta energia. I nuovi brani hanno già aperto un’ampia breccia nel cuore del pubblico. È cosa rara. Di solito l’attesa è tutta per i pezzi vecchi. Invece canzoni come Paul e Linda, Dialobik e Cielo Super Acceso vengono accolte con il clamore che normalmente si dedica soltanto alle hit.

 

luca ferrari verdena

Ma è solo l’inizio. Perché nella seconda parte del live, quando incominciano a setacciare dai dischi precedenti, i Verdena si giocano una via l’altra le carte che in passato si tenevano strette. Li ho visti tante, tantissime volte, ma ascoltare in un’unica data Viba, Valvonauta, Luna, Starless, mettici pure Muori Deley e Don Calisto, beh, non mi era praticamente mai capitato. Un insieme di (anti) inni generazionali che strappano le corde vocali e rievocano ricordi che pensavi dimenticati sotto il banco di scuola. Anche per i neofiti è una goduria, un “best of” al fulmicotone. Si tira il fiato solo ogni tanto (Nei Rami, Trovami un modo semplice per uscirne, Razzi Arpia Inferno e Fiamme). Per il resto è una vera e propria legnata sui denti. La selezione non è casuale, ma rientra nella precisa scelta di dare in pasto alla platea uno spettacolo carnale, abrasivo e senza fronzoli. Alla faccia di chi pensava che i Nostri si fossero ammosciati.

Come di consueto, non una parola tra un pezzo e l’altro. Giusto qualche “grazie” piazzato qua e là. Qualche sguardo sulla folla, che a volte significa più di tante frasi di circostanza. Poi soltanto musica, di quella scavata nel granito e suonata a testa bassa. Giù in fondo, a giocare tra i pedali e i tormenti interiori, per un’ora e mezza trascorsa quasi in apnea fino alle cannonate finali di Volevo Magia. Certo, l’assenza delle loro lunghe cavalcate psichedeliche (Il Gulliver, Nova, 17 Tir Nel Cortile, ma anche qualche brano in più da “Endkadenz” e “Wow”) si è fatta sentire. Almeno a tratti. Ne sarebbero bastate un paio per dare maggiore profondità al concerto. Ma l’impressione è che a questo giro i bergamaschi abbiano voluto restituirci la versione più genuina e radicale di se stessi. Quella di un power trio nudo e crudo, che parte dal grunge, si increspa nello stoner e sfocia nel miglior alternative italiano. Tuttora insuperato.

Paolo

 

 

Qui le nostre photo gallery della seconda data di Milano e quella di Torino.