Dopo averli visti al raduno di Villa Inferno (qui le nostre foto), in occasione dell’uscita del loro nuovo album Il Male” (recensione), abbiamo avuto modo di scambiare qualche chiacchiera telefonica con gli Zen Circus.

Insieme a Ufo abbiamo parlato del raduno, di questo nuovo lavoro crudo e incazzato e del tour nei club che partirà dalla Hall di Padova il 28 novembre.

A cura di Mattia Sofo

 

 

Prima di tutto, come va, come state?

Benone, benone. Stiamo scaldando i motori, abbiamo già fatto la prima parte di promo e sta andando molto bene.

Dato che i ricordi di Villa Inferno sono ancora piuttosto nitidi, vorrei partire da lì. Un momento indelebile per me è stato il “pogo tenero” su L’anima non conta: in quel momento abbiamo iniziato tutti a cantare guardandoci negli occhi, anche tra sconosciuti, dedicandoci a vicenda quelle parole. Non mi era mai successo prima a un concerto. Come descriveresti le emozioni del raduno dal vostro punto di vista?

Un’emozione paurosa, anche perché è la prima volta che facciamo una due giorni. È qualcosa che ci è proprio scappato di mano, ed è un piacere vedere che ti scappa di mano, cioè che va oltre le aspettative. Anche perché poi era il primo banco di prova per capire la gente cosa sentiva, cosa pensava del disco nuovo. 

Ho avuto molte discussioni con tantissime persone, tantissimi fan, è stato molto emozionante. Ma anche il firmacopie poi a seguire è stato veramente molto emozionante, domande intelligenti, una situazione veramente bella.

Poi vabbè, noi siamo venuti via domenica mattina, tumefatti, morti, avremo dormito tre ore, e la cosa che mi è rimasta impressa è che c’erano i ragazzi al campeggio che facevano la grigliata, cioè che si erano organizzati e andavano avanti per conto loro. Mi ha fatto impazzire: allora io avevo detto, torniamo indietro e uniamoci anche noi, poi dovevamo tornare a casa. È stato molto, molto, molto, molto, molto speciale. Stiamo già pensando alla prossima, ovviamente.

È una di quelle feste che dici, vabbè lo rifacciamo domani e anche dopo domani.

A me tra l’altro pare una follia aver dato via 2.000 musicassette, cioè dai tempi di Cocciante che non vanno via 2.000 musicassette in Italia. È una bella follia. Come tutte le date organizzate da noi in prima persona è venuto un gran casino, ma ci piace questa cosa.

E a proposito del Male, di questo disco che privilegia una certa nudità, un suono molto crudo, i testi lucidi, incazzati e incalzanti. Cosa vi mancava di questo modo di fare musica e perché ci siete tornati proprio in questo momento?

Venivamo da un certo numero di lavori abbastanza elaborati, abbastanza ricchi di sonorità, di tappeti, di cose in più. Andrea pure ha fatto un disco solista con un set molto all’opposto. Tanta partecipazione elettronica, tanto di tutto. Quindi anche per reazione, quando abbiamo iniziato la pausa di due anni fa, abbiamo provato a ritornare un po’ allo stile dei dischi più garage che avevamo fatto, Doctor Seduction, Nello Scarpellini… quei dischi un po’ più in presa diretta, no? 

Quindi poi la scrittura dei brani è andata avanti in sala prove. Ogni volta che ci trovavamo veniva giù Karim da Forlì, si andava in sala prove da Andrea, si diceva “è già tanto se usciamo dalla sala prove con qualche idea” e ogni volta venivano fuori uno o due brani, cotti, finiti e mangiati. Si mettevano due microfoni al volo in sala e il pezzo veniva. E allora, visto il periodo di grazia, abbiamo detto “stiamo in sala prove”.

È stato programmatico, si è autonominato così il disco. Poi al momento di farlo davvero, fatto bene, pensavamo che fosse fatto bene così, non c’era altro da aggiungere, capito? Quindi basta. Se c’è un’altra chitarra, oltre a quella di Andrea, è quella del maestro Pellegrini, fine. Il male si è autoproclamato, perché dopo due, tre, quattro canzoni, c’è sempre quella linea del male, il male, il male… Vabbè, si chiamerà il male. Si è autoprodotto completamente.

Devo dire che l’urgenza si è percepita tutta.

Si, c’era anche tanta incazzatura, tante cose. È stato un disco un po’ più dei primordi, con la consapevolezza di gente più grande, quindi ti spieghi meglio, fai tutto un po’ meglio, hai fatto tesoro di quello che è successo negli anni.

Alcuni brani hanno creato un grande senso di risonanza. Mi sembra che oltre a identificare tante formule del male, abbiate trovato un modo preciso, la descrizione di una traiettoria di resistenza che è un po’ stanca, arrabbiata, però non vinta. Mi ha ricordato un po’ le manifestazioni degli ultimi giorni che hanno comunicato in qualche modo questo senso di rivalsa collettivo. Voi, come persone, a cosa state opponendo l’esistenza in questo momento?

Ci hanno chiesto più volte questa cosa, perché si percepisce questo senso di noi, senza scomodare gli esistenzialisti, però pensiamo che la rivolta contro una partita che magari è anche truccata – il cui esito si sa che è una sconfitta, perché poi la vita terminerà sempre con una sconfitta, perché ti verrà tolta – è una partita con dadi truccati, ma quello che rende l’uomo una persona e non un burattino nelle mani del Fato, è proprio la rivolta contro la condizione umana stessa. 

In un certo senso con la nostra ironia, con la nostra leggerezza, con i nostri paradossi, vogliamo lottare contro la solitudine, il senso di impotenza che ti può attanagliare, il senso di distacco dagli altri, e anche contro il senso di ineluttabile.

E poi c’è anche quella fiammella che ancora resta, da sempre, dall’inizio nostro, quel calcio in culo, quella voglia di dinamicizzare la vita in qualunque maniera, che penso che sia questo, il tentativo di ritagliare un ponte con gli altri, con se stessi, anche attraverso il male. C’è anche il male analizzato, preso di petto, quello intimo, anteriore a quello totale, globale, storico, mondiale.

E contro cosa lottiamo? Anche contro noi stessi. C’è un piano di paradossi, la cifra espressiva degli Zen è piena di paradossi. Spesso lottiamo anche contro noi stessi. Contro tutto. È una situazione di mobilitazione permanente sfuggita anche da un cinismo, che altrimenti ci sovrasterebbe. Noi siamo, tendenzialmente – forse perché toscani, provinciali, lo so – siamo ammantati di un cinismo tremendo, e noi crediamo invece a un allegro fatalismo, come nella canzone Vent’anni.

The Zen Circus

Un atto di resistenza è anche il fatto che i vostri concerti, anno dopo anno, rimangano abbastanza accessibili per quello che è il contesto italiano, e per quello che sta succedendo un po’ al mondo dei concerti dal vivo.

Ma per forza, per una band come noi, cresciuta nel live, perché per noi è il momento fondante di tutto, non avrebbe senso seguire certe logiche che attualmente hanno assunto poi la forma di una bolla inflazionistica. Qualcuno poi ci batterà anche la faccia, noi no.

Penso che sia corretto usare il termine budget rock. Noi abbiamo sempre creduto nel budget rock. Ci davamo un budget e ci muovevamo all’interno di quello, che fosse un furgone scassato, un camper, una venue o un locale. Mettiamo a budget le cose con criteri di buon senso e nessuno si farà male. 

E poi è importante, abbiamo anche tantissimi fan che non c’hanno sbatta di tirar fuori 50, 60 euro. Non ha assolutamente senso. Non ha senso essere costretti a fare meno concerti, cioè limitare la nostra urgenza espressiva. Quindi ne voglio fare quanti più possibili nei limiti del gestibile, e fare in modo che mi rimanga anche spazio e tempo dopo il concerto.

Con un disco così incazzato, come vi state preparando al tour? In un paio di interviste proprio tu raccontavi di alcuni episodi rocamboleschi della vostra carriera. Questa cifra rimane nel tour degli Zen anche adesso, dopo tanti anni di concerti, è una cosa che vi nutre ancora quando siete in giro o avete trovato altri equilibri?

No no, la sottotraccia insensata, avventata e schiantata, non penso che ci possa abbandonare. Quella no. L’attitudine irresponsabile penso che resti.

Stiamo preparando un concerto ovviamente un po’ più lungo del normale, perché ci sono 12 album, e abbiamo scritto anche tante canzoni di merda, ma tante invece la gente le vuole ascoltare. Però ci siamo accorti che il disco nuovo sta piacendo molto, c’è un interesse forte per un ventaglio di brani, quindi la difficoltà sarà poi inserirli dentro il nostro storico, perché chiaramente se non facciamo Viva veniamo linciati. Quindi dobbiamo un po’ reimpastare tutto: comunque sarà il solito casino in giro per l’Italia, come sempre, saremo sempre gli ultimi ad andare via dai locali, faremo degli scherzi stupidi alla gente e le solite cose.

Lasciamoci con un po’ di sano filosofeggiare. Nell’ultimo brano dite che le canzoni alla radio sono il male, e anche nelle presentazioni dell’album avete parlato di come spesso i testi delle canzoni rimangano un po’ superficialmente distanti da noi. Anche da ciò di cui avremo bisogno che esorcizzassero davvero. Per voi è un problema che riguarda solo certi contenuti che ci intercettano, cioè un certo tipo di cultura atta al consumo, o invece è un modello più insidioso che ha a che vedere con come viviamo quotidianamente?

Ci siamo domandati anche questo. Il punto è che il male è rimosso collettivamente, perlomeno dagli anni ‘80, quando iniziò questa cosa della mindfulness, del jogging della salute, della gioventù come valore assoluto. Insomma tante cose che poi sono ritornate anche nei social. Tutto bellissimo, siamo tutti la versione migliore di noi stessi, sempre e comunque. 

Siamo a un punto in cui sono tutti bravi e hanno tutti ragione. Secondo me anche Netanyahu oggi è convinto di fare del bene. Alla fine il male si è mangiato il mondo. Per questo l’abbiamo rappresentato come un feticcio di marketing, anche in copertina, perché il male adesso sta vendendo tantissimo, è un articolo che va. 

E allora cosa succede, cosa abbiamo fatto? È proprio che il male, poi lo diciamo, siamo noi. È tutto così patinato, tutto così bello, allora come mai siamo tutti impegnati a fare la corsetta mattutina, a depilarci, a farci delle foto bellissime, queste vacanze bellissime che facciamo, tutte queste cose piene di buone intenzioni. Alla fine cosa hanno portato? A una merda enorme.

E allora le domande sorgono spontanee. Siamo noi o è veramente il contesto, ormai spettacolarizzato, nel quale le cose brutte e le cose belle fluiscono così? Siamo sovrastimolati, anestetizzati, e poi magari la speranza è che un po’ di yoga ci possa rimettere al mondo. L’ultimo traguardo adesso è trovare se stessi, sistemare se stessi, “io, io, io”, io con le mie idee, i miei valori, io con la mia anima ricostruita rinnovata, bella. Questo è molto inquietante, ecco.

È veramente un quarto di secolo che non mi aspettavo. Sinceramente se me l’avessero detto a trent’anni, che la ricompensa per aver superato una pandemia sarebbero state queste guerre inimmaginabili avrei pensato calmi tutti. E invece stiamo vivendo degli anni incredibili, è anche un momento incredibile per essere vivi.

 

Foto: Ilaria Magliocchetti