«All music written, performed and mixed by Kevin Parker». E già qui potremmo chiudere il discorso, o meglio, impostarlo in maniera differente. Sì, perché la prima impressione che balza agli occhi, ma soprattutto alle orecchie, è che questa volta più che mai i Tame Impala siano diventati principalmente un collettivo di performer a supporto della creatività di Kevin Parker, che sperimenta ma non si arrocca in torri d’avorio da sperimentazioni avulse dalla realtà circostante.

“The Slow Rush” si impone certamente come viaggio lisergico e apre una stagione primaverile che lo vedrà protagonista, ma allontana definitivamente non solo la proposta dei Tame Impala dal quel guitar-driven psych-rock delle origini, ma anche i Tame Impala stessi dall’immaginario di rock band contemporanea. E per fortuna, per certi versi, se questo scettro è conteso da Imagine Dragons e Bastille. Del resto per immaginare come suonerebbero i Tame Impala duri e puri basta ascoltarsi i Pond, benché anche lì con Parker in cabina di regia.

Dopo attese e rumours, incendi e ritardi, quello che questo disco mette in mostra sin dai primi ascolti (e a ben vedere dalle prime anticipazioni) è un lotto di strofe e ritornelli killer tutti giocati su loop di synth concentrici, tastiere da supertrampiana Colazione in America, ritmiche dritte dal soul funk e falsetti filtrati. Il tutto periodicamente sballottato da mono a stereo nel mix finale. Non che le chitarre siano state bandite, nello spettro sonoro fanno la comparsa addirittura delle sei corde acustiche, oltre a qualche bell’assolo di chitarra, saturo e mai virtuoso.

Gli appassionati di production tips avranno di che leccarsi i baffi come gatti di fronte a un pesciolino rosso: riguardo i brani nel dettaglio, ognuno si contraddistingue per qualche trovata che lo diversifica dal precedente, senza snaturare l’omogeneità dell’opera che si mantiene come un flusso di coscienza fatto di pensieri e suoni. Troviamo in apertura One More Hour, con il suo vocoder gregoriano che loopa il titolo del brano per l’intera durata; la chiusura alla Vangelis di Instant Destiny, a cui però se alzi i bpm diventa un pezzo di Beyoncé; flauti e timpani sul singolo Borderline, seguito dall’altro singolo Poshumous Forgiveness, struggente dedica di Kevin Parker al padre, come a volersi ripacificare con la figura defunta, giocata sul riff di chitarra che poi si incanta (vecchio trucco di casa Tame Impala, ricordate Let it Happen e prima ancora Feels Like We Only G Backwars?).

Anche la successiva Breathe Deeper viene improvvisamente troncata da un salto di puntina: inizia come un pezzo di Pharrell Williams dell’era Neptunes, per poi tramutarsi in un finale che lì per lì diremmo campionato dagli ultimi Daft Punk, al pari Lost in Yesterday. E non è un caso che alcuni stiano già forse impropriamente accostando, almeno per portata culturale e rilevanza mediatica, “The Slow Rush” a quel “Random Access Memory” che fece la fortuna del primo e dei secondi.

Il rischio che possa essere bollata come musica di sottofondo, reiterata elevator music, è alto. In 57 minuti di durata non mancano vette di squisito kitsch, a partire dal concept art della copertina e dei singoli. Saper celare leccornie sonore in un flusso generalmente digeribile però è prerogativa di un grande producer, si chieda conferma di ciò a Trevor Horn e compagnia cantante.

La comunità musicale più patrizia ormai dai qualche anno addita e a tratti schifa i Tame Impala per eccessivo sdoganamento. Virale è stato un meme di qualche settimana fa che raffigurava con ironia i fan dei Tame Impala del periodo di “Innerspeaker” come dei fattoni in bermuda e i fan dei Tame Impala post “Currents” come delle belle signore a un ordinario wine party. Eppure le escursioni in pattern di specifica appartenenza al mondo POP (Rihanna e dintorni dell’epoca) si potevano riscontrare già di “Lonerism”, che ormai va per i 10 anni anche lui.

In anni di canzoni scritte in provetta da pool di autori, pensate per calzare algoritmicamente nella playlist più cliccata della piattaforma di streaming di turno e soprattutto di esibizioni live che poi disattendono quanto architettato con astuzia in studio, bisogna se non altro ringraziare di godere di dischi come “The Slow Rush” e band come i Tame Impala, che indicano la via per una sperimentazione pop e alla portata di tutti, fattoni e belle signore.

Andrea Fabbri