L’unica cosa che varrebbe la pena scrivere sul concerto degli Slowdive al Magnolia sarebbe questa: «Gli Slowdive dal vivo sono immensi». Fine del report.

Se poi uno volesse spendere ancora qualche parola significativa, potrebbe dire: «Gli Slowdive sono un gruppo imprescindibile per l’ultimo ventennio di musica». Almeno per buona parte della musica che a mio parere vale la pena di ascoltare.

Nel caso in cui, alla fine, uno si trovasse costretto a dilungarsi ulteriormente, potrebbe lanciare a tutti quelli che non li conoscono un severo monito: «Correte ai ripari il più presto possibile».

Esaurite queste tre informazioni principali, il profluvio di parole che seguirà è del tutto superfluo e potreste anche tralasciare di leggerlo, a meno che non vogliate essere intrattenuti da qualche aneddoto, per riempire i prossimi due minuti mentre aspettate la metropolitana.

Mi sono svegliata la mattina del 2 settembre in preda a un hangover importante. Verso metà pomeriggio, visto che la situazione non migliorava, ho addirittura messo in forse la mia partecipazione al consueto e sempre interessante Unaltrofestival, giunto alla quinta edizione, che vedeva appunto gli Slowdive come headliner della serata. Fortunatamente due etti di pasta all’amatriciana consumati verso le 5 del pomeriggio hanno permesso al mio fegato di riportare le funzioni vitali a una soglia accettabile, quantomeno per la deambulazione, e quindi mi sono tirata in piedi senza indugi alla volta del Magnolia.

In cartellone, oltre al quintetto di Reading, avrei voluto tanto ascoltare Wrongonyou, scoperto l’anno scorso in quel di Chiaverano, all’A Night like This Festival e mai più dimenticato (il buon Paolo Ferrari aveva scritto una bella recensione del primo EP, che potete leggere qui). Purtroppo un misto di disorganizzazione e calcoli errati di tempistiche mi hanno fatto arrivare troppo tardi e me lo sono perso. In compenso ho avuto modo di scambiare qualche parola con lui mangiando un panino salamella e friarielli (altro tentativo disperato di combattere l’hangover) e ho potuto piacevolmente constatare che il suo sorriso aperto, gli occhi sinceri e i modi genuini si rispecchiano interamente nella sua musica, concentrato di chitarre arpeggianti, melodie dolcissime e malinconiche e una voce delicata, struggente, meravigliosa. Se non lo avete mai ascoltato, indossate la vostra miglior camicia a scacchi e preparatevi a un pellegrinaggio nei boschi del Wisconsin alla corte di Sua Maestà Bon Iver. Il biglietto vale il viaggio.

Chiusa la parentesi cena, mi sono data all’ascolto per la verità un po’ distratto dei Seafret, che descriverei come un misto tra Lumineers e Damien Rice dalle sfumature sicuramente interessanti, ma resi ai miei occhi poco credibili a causa della chioma grigia irsuta del frontman che ricordava in modo impressionante Branduardi. Tralasciato poi il live dei Gazebo Penguins per sopraggiunti limiti di età, è finalmente arrivato il momento di salire sul palco principale del Magnolia per i paladini dello shoegaze britannico che conta.

Da qui in poi il racconto diventa intricato da dipanare, perché ho chiuso gli occhi e sono stata proiettata in un’altra dimensione. Il tuffo lento evocato dal nome della band io l’ho fatto dentro i meandri di un onirico viaggio alla ricerca di me stessa, lasciandomi cullare dagli echi riverberati, distorti e minimali che caratterizzano il sound della band. Impossibile descrivere il galleggiare a mezz’aria sopra una distesa di ghiaccio artico durante l’aurora boreale e il rotolare in un loop senza fine verso il punto di rottura creato tra i delicati intrecci di suono, compatti ma elastici allo stesso tempo, soavi ma potentissimi insieme. Un orgasmo multiplo per orecchie, cuore e anima.

Un’esperienza che consiglio a tutti almeno una volta nella vita, quantomeno come antidoto all’hangover. Inutile dire che se a nulla sono valsi carboidrati e salamelle, la musica, come sempre, mi ha salvato, prendendosi cura delle mie stanche cellule cerebrali e portandole in un giardino meraviglioso fatto di fiori di cristallo e nuvole rosa confetto, tratteggiate dalla voce eterea di Rachel Goswell e compagni. La scaletta ha incluso i brani più celebri, tratti dai tre album capolavoro usciti tra il 1989 e il 1995, e alcuni riferimenti degni di nota all’ultimo album omonimo, pubblicato a gennaio di quest’anno dopo 22 anni di assenza. Incredibile credere che all’esordio, dopo un discreto interesse da parte della critica, il loro percorso musicale sia naufragato nel dimenticatoio.

Forse perché nel ’91 oltreoceano usciva un album chiamato “Nevermind” e in patria scoppiava la bomba brit-pop, ma pezzi come Alison, Catch the Breeze, Souvlaki, eseguite magistralmente dal vivo insieme a una cover di Golden Hair di Syd Barret da pelle d’oca, dovrebbero rientrare di diritto su tutti i manuali di musica perché hanno influenzato molto di quello che è venuto dopo, soprattuto negli ultimi anni (leggi in ordine sparso DIIV, Unknown Mortal Orchestra, Tame Impala, Grizzly Bear). Sta di fatto che finito il live ero talmente estasiata, da perder la parola. E seppure la mia vena masochistica mi abbia suggerito di coronare la serata con un vodka tonic, giusto per ristabilire gli equilibri, non c’è stato alcolismo in grado di trattenermi dal tornare a casa e abbandonarmi al sonno in preda a un fluido, ipnotico e fluttuante caleidoscopio di emozioni.

Nonostante il djset seguito al concerto prevedesse i succulenti nomi di Carlo Villa dello storico Karmadrome, Mike Joyce degli Smiths e Richey Sixx (Cvda), dopo gli Slowdive, l’unica cosa che per me è valsa davvero la pena di ascoltare è stato il silenzio.

La Vedova Tizzini

 

Si ringrazia Pier Angelo Cantù, per il bellissimo articolo uscito nel 2005 sulla storica rivista Late for the Sky, che mi ha regalato un resoconto dettagliato della parabola della band (che potete leggere qui) e Silvia Battagin per la foto della scaletta che pubblichiamo qui sotto.