A cura di Paolo Ferrari
Se si dovesse usare un solo aggettivo per descrivere Calcutta, così, a pelle, quell’aggettivo sarebbe “scazzato”. Il tono dimesso, lo sguardo a mezz’asta, le felpe in acetato di una taglia in più. Edoardo D’Erme, 29 anni da Latina, appare così. Dimesso, schivo, senza voglia. Come quei gattoni appesantiti stesi sul divano con lo sguardo sornione: riducono al minimo il contatto con l’uomo, ma sono amati da tutti. E quindi eccolo lì, il caro Calcutta, avvitato sul palco di uno stadio del basso Lazio o dell’Arena di Verona, di fronte a migliaia di fan pronti a riempirgli la ciotola di croccantini.
Perché amici? Perché fate questo?
Al di là delle ridondanti analisi sociologiche sui motivi del suo successo, è evidente che un fenomeno come Calcutta, partito da Bomba Dischi e arrivato a conquistare le classifiche italiane, non può essere liquidato con una banale radiografia della sua immagine. Ad attirare il pubblico come una calamita, non può essere soltanto il suo pop leggerino, e nemmeno la macchina promozionale costruita ad arte alle sue spalle. C’è qualcosa di più. Qualcosa che rende Calcutta unico e terribilmente catchy. Ma cosa?
Il terzo disco di Calcutta, “Evergreen”, è uscito non mi ricordo quando. Comunque da poco. Le dieci nuove tracce del menestrello itpop danno in pasto all’ascoltatore esattamente ciò di cui aveva bisogno. Testi intriganti che rimandano alla quotidianità di provincia, storie d’amore vissute al limite, disagio interiore a badilate, piccoli rimedi farmaceutici. Insomma, niente di più rispetto al precedente “Mainstream”. Fa eccezione un solo brano, Kiwi, l’unico a incardinarsi su binari finora inesplorati, lungo un percorso meno facile, soprattutto nei suoni e nelle atmosfere che richiama. Si potrebbe parlare anche del tormentone Paracetamolo, per il quale anche mia madre, insospettabile ultrasessantenne, ha mostrato un certo apprezzamento. Sarà che ricorda un vecchio, bellissimo brano di Paolo Conte, Sparring Partner, ma non è questa la cosa importante.
Piuttosto, c’è un aspetto della poetica di Calcutta, intesa come struttura espressiva-contenutistica dei brani, che meriterebbe un approfondimento. Ed è forse proprio questo il segreto di Calcutta. Si tratta della sua innegabile capacità di trascinare l’ascoltatore dentro il proprio mondo, in un universo di riferimenti che, in fin dei conti, coincidono in ognuno di noi. È così che anche i più refrattari si ritrovano loro malgrado a canticchiare le sue canzoni nascosti in un angolo per non farsi sentire. Capita però che il freno inibitorio venga meno. E allora li vedi dimenarsi ai concerti, senza alcun pudore, affrancati da una massa che lava loro la coscienza. Ecco dunque che Calcutta riempie gli stadi, registrando un sold-out dietro l’altro come un Biagio Antonacci qualsiasi.
Ebbene. Uno dei suoi trucchi, che poi non è un trucco ma semplicemente un artificio compositivo, è il cosiddetto “hook”.
Un “hook” è l’elemento piazzato all’interno di una canzone per attirare l’attenzione dell’ascoltatore e non mollarlo mai più. È un passaggio, una frase, un riff, una trovata musicale in grado di scatenare il desiderio di riascoltare lo stesso brano altre mille volte. Prendete ad esempio Levante e quel suo primo singolo, Alfonso. In sostanza si riascoltava l’intera canzone solo e soltanto per urlare “che vita di merda”. Salendo di livello, si potrebbero citare gli assoli in scratch di Tom Morello, la chiusura di I Wanna be Sedated dei Ramones, l’entrata della batteria in Fake Empire dei The National, il coretto (“ooo-eee-ooo”) in Buddy Holly dei Weezer, e via dicendo.
Estendendo il termine a un ambito puramente cantautorale come quello di Calcutta, potremmo includere, oltre agli artifici strettamente musicali, anche quelli letterari (una bestemmia, lo so, ma ci siamo capiti). Certo, non è una novità. Quella della “parola giusta nel testo giusto” è una tecnica che l’itpop usa ormai con nauseante frequenza. Basti pensare alla “bici rossa Atala” dei Thegiornalisti o a quell’accozzaglia di parole chiave che era Hipsteria de I Cani (“negroni”, “macbook pro”, “american apparel”, “david foster wallace”, “polaroid”, “lomo”, “daniel johnston”, in un’unica canzone).
E quindi? E quindi ho provato a elencare tutti i motivi per cui Calcutta riesce a mettere insieme un pubblico così vasto, che va dai giovani alternativi ai fan di Vasco Rossi. Detto questo, pienamente consapevole che questa analisi possa non fregare un cazzo a tanti di voi, procediamo a casaccio tra richiami ad atmosfere già vissute, anestetici per gli haters, “hook” accattivanti e filosofia molto spiccia.
1. Le città in tutte le salse
Al buon Edoardo piacciono le città, meglio se di provincia (non è un caso la scelta di “Calcutta” come personalissimo moniker). Citando spesso le città, il cantautore finisce per lusingare chi ha vissuto, sognato, odiato o rimpianto quei luoghi. L’elenco delle città protagoniste delle sue canzoni è molto lungo. Eccone alcune, non credo tutte: Bologna, Frosinone, Pomezia, Peschiera del Garda, Rio de Janeiro, Giza, Venezia, Medjugorje, Cisterna, Pesaro, Fondi, New York, Sabaudia, ma soprattutto Milano, che non solo ha ispirato un’intera canzone (Milano, appunto), ma viene citata anche in tre brani del suo nuovo album: Paracetamolo, Rai (corso Sempione) e la strumentale Dateo (piazzale omonimo e stazione milanese).
2. La mitologia fuori moda
Rimanendo in tema di citazioni, nei testi di Calcutta si trovano anche molti riferimenti ai miti della cultura popolare, della canzone italiana, del calcio. Questi personaggi diventano i protagonisti, se non di un intero brano (Papa Francesco in Frosinone, Dario Hubner nella canzone omonima), quantomeno dei versi più gettonati: «Vestiti da Sandra che io faccio il tuo Raimondo» (Del Verde), «Non mi importa niente di tuo padre, ascolta De Gregori» (Limonata), «Taranta, Celestini e Bmw» (ancora Limonata), «Tu eri nuda, nudissima, Raffaella Carrà» (Nuda Nudissima), «Io ti parlavo di Frassica, della mia ipocondria» (ancora Nuda, Nudissima). Figure popolarissime, dimenticate o semplicemente demodè, vengono riabilitate in un contesto solo apparentemente lontano, ma vicinissimo a chi è cresciuto fra gli anni ’90 e i primi Duemila. Calcutta è riuscito a rispolverare anche un film che negli anni è invecchiato male, “L’ultimo dei Mohicani” (Frosinone).
3. Gli urloni fortissimi
Le canzoni di Calcutta sono costruite in buona parte intorno a ritornelli in cui si canta a squarciagola. La voglia di gridare con lui nel modo più stonato possibile, e tendenzialmente con il dito alzato al cielo, è difficile da trattenere. L’esempio più calzante è l’urlone liberatorio di Pesto: qui il ritornello esplode nell’ormai classico “Uè deficiente”, diventato patrimonio dell’itpop per il numero di ugole lacerate. Di più c’è solo Al Bano.
4. Il vittimismo ruffiano
È innegabile che il personaggio che Calcutta si è cucito addosso (ci è o ci fa, non ci interessa) sia quello dell’amante sfigato, dimesso, a tratti masochista. Un ragazzo di provincia, timido e impacciato, in perenne ricerca di uno straccio di fidanzata. Un ragazzo che anche quando sembra avercela fatta, fallisce miseramente fagocitato dalla sua piccola, squallida realtà. La conquista dell’amore diventa un percorso a ostacoli e la gaffe è sempre dietro l’angolo. Tanto da suscitare immediata empatia, una sorta di tenerezza che a seconda dei casi può sfociare in sincera solidarietà o in una compassione umana, quasi fraterna. Insomma, cosa puoi dire a uno che canta «ti porterò dei soldi per venirmi a trovare»? O che la sera dell’appuntamento risponde: «Scusa, non ho voglia di uscire, resto a casa col cane, anche se lui non c’è più»? Lo stesso che quando la tipa finalmente si ripresenta, la accoglie così: «Come stai? É un po’ che non mi offendi». Beh, non puoi dirgli proprio nulla. É un ruffiano, ma puoi solo stare con lui.
5. I tastierini da cameretta
Soprattutto nel suo secondo disco, “Mainstream”, Calcutta fa un uso massiccio di tastiere minimal, per non dire banali, che hanno contribuito a definire il suo suono. In realtà ci aveva già pensato in passato Niccolò Contessa, che non a caso ha collaborato con il cantautore di Latina proprio in “Mainstream”. Gli intermezzi di synth catturano chi ascolta trascinandolo direttamente nella cameretta di chi suona. Si crea quindi quell’intimismo tipicamente lo-fi, che a suo tempo è stato in grado di stregare anche i puristi dell’indie-pop. Cosa mi manchi a fare, Limonata e Del Verde ne sono un esempio. Con il nuovo disco, complice una maggiore ricchezza nei suoni, questo effetto viene un po’ a mancare.
6. Il disagio estremo
È il suo marchio di fabbrica, la firma indelebile sul cuore dei suoi ammiratori. Ma attenzione, il disagio descritto da Calcutta non è quello interiore. È solo la sua naturale conseguenza, è il male di vivere tradotto in una quotidianità sciatta, priva di entusiasmi, spesa a mangiare pizza sul divano in totale solitudine. «Tu giri l’insalata e non ce la fai più» (Limonata) è un verso di una tristezza infinita, per dire. L’amarezza regna sempre sovrana, ma è spesso condita con un sarcasmo che la rende accettabile, quasi condivisibile. La voce di Calcutta, limpida ma indolente, diventa il megafono dei disadattati, ma in senso melodrammatico, a tratti comico: «Poi guardo in una Tipo e vedo che ci sta dormendo Enrico» (Enrico); «Ti ho vista su un cammello dentro Google Earth» (Stella); «Andiamo al mare senza asciugamano» (Senza Asciugamano). I prodotti più modesti si trasformano in feticci, come lo Svelto o l’Arbre Magique: «Sì, lo so, non è romantico questo odore di Arbre Magique al muschio selvatico» (Arbre Magique). Chissà se è lo stesso di cui parlava Max Pezzali in Sei un mito?

Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.