Dunque, abbiamo seguito il buon Calcutta in due differenti date del suo trionfale tour nei palazzetti: il 20 gennaio al Forum di Assago (Milano) e il 6 febbraio Palazzetto dello Sport (Roma). Due città diverse, per due diversi punti di vista sul menestrello itpop da Latina. E voi? Cosa ne pensate? Buona lettura.
Calcutta live? Per me è un no
di Mario Taccone
Milano, 21 gennaio 2019 – Chiariamo subito: a me Calcutta piace. I suoi accordi semplici, i suoi testi, con quella loro naturale capacità di elevare il dettaglio banale a simbolo poetico, li trovo parenti del realismo magico, della capacità che solo il grottesco ha di rivelare la precarietà generazionale in uno Svelto per lo sporco ostinato. La sua, per me, è pura poesia in musica.
Ma non mi piacciono i suoi live. E non mi piacciono i suoi live perchè, fondamentalmente, non mi piace il suo atteggiamento. In questa scena musicale dominata dall’aggressiva ostentazione trapper (e dai suoi clichè di collane d’oro e aerei privati) Calcutta rappresenta uno stereotipo altrettanto banale, per quanto opposto: il perfetto antidivo, il compiuto antieroe da divano, che esce poco e odia le feste, un po’ ipocondriaco, un po’ misantropo, perennemente annoiato. La sua apparente sciatteria, la sua sbadata improvvisazione, sono in realtà una posa studiatissima, la macchietta del ‘normale’, dimesso e senza troppe ambizioni, arrivato al successo per caso, quasi controvoglia.
Tutto in lui, dall’abbigliamento all’accento dialettale, dai gusti musicali alla topografia da provincia, definisce un’attitudine. È, in una formula, il conformismo dell’anticonformismo – così in voga tra gli universitari al secondo anno – il trito ideale del giovane artista con la chitarra e i capelli sporchi che scrive un capolavoro su un intercity per la stazione di Fondi. Ecco, il live al Forum di Assago non mi è piaciuto perchè è la rappresentazione plastica di questo ideale.
Quando appare sul palco tutto sembra improvvisato: sbaglia l’attacco del primo pezzo, stecca un paio di volte, si presta al siparietto con la presunta vocal coach presente a bordo palco. Il dialogo col pubblico è sempre sospeso tra lo svagato e il confidenziale. L’abbigliamento è informale, tardo-adolescenziale, cappellino d’ordinanza, pantalone sformato, polo abbottonata fino all’ultimo bottone. Calcutta rimane lì impalato sul palco, come inchiodato al ruolo che si è imposto.
Dietro scorrono video volutamente grezzi, incompiuti, da cameretta, che centrifugano immagini estetizzate dell’immaginario pop rilette in chiave ironica (dai filmini da matrimonio a Paolo Fox a Pardo che pubblicizza acqua in inglese). Insomma, l’artificio è troppo scoperto, e si attenua solo con l’arrivo di Francesca Michielin – tutta semplicità e perfezione vocale – e la corale partecipazione agli inni finali. Poco, troppo poco per quello che rimane il più bravo cantautore della sua generazione.
Calcutta live? Per me è un sì
di Giulia Zanichelli
Roma, 6 febbraio 2019 – Chiariamo subito: anche a me Calcutta piace. E mi è piaciuto anche il suo concerto. Sarà che era più rilassato, che a Roma giocava quasi in casa, che aveva alle spalle ormai un tot di date… Sarà che non ci ho visto nulla di (troppo) costruito. Sul palcoscenico dell’ex Palalottomatica (non riesco ancora a tenermi in mente il nuovo nome) c’era il Calcutta che mi aspettavo, anzi, pure meglio di quello che pensavo di trovare. Forse traumatizzata dalla visione di Sanremo del giorno precedente, l’ho trovato intonato, ben sorretto dalla band e dalle coriste (anche se ammetto che la reinterpretazione ruock di Nuda Nudissima non mi ha fatto impazzire). L’ho visto padrone del palco, nella sua personalissima e calcuttiana maniera. Saldamente incollato all’asticella del microfono o alla sua chitarra, non è certo il tipo che corre da un lato all’altro del palco o che si lancia sul pubblico. Ma ehi, nessuno se lo sarebbe mai aspettato, giusto?
Quello che tutti volevano dal live era semplicemente cantare a squarciagola le sue parole così banali e speciali al tempo stesso, abbracciarsi, ridere delle immagini proiettate (da Dodò alla gag con Fiorello e Paolo Fox per lanciare Oroscopo e gli spezzoni di Sanremo) e a quelle improvvisate con il tecnico che gli sorregge la chitarra perché si è rotta la tracolla.
È vero, il buon Edoardo è il perfetto stereotipo dell’antidivo, dell’anticonformismo diventato oggi una moda: ma quello che lo differenzia dai milioni di cloni sparsi per tutta Italia è che tutto questo lo ha creato lui. Questa immagine svagata e un po’ asociale, per quanto si possa dibattere sulla sua artificiosità, gli si incolla addosso in modo perfettamente naturale. Continua ad apparirci come lo “sfigatello” buono che ce l’ha fatta, quello trasognato e trasandato che con le sue canzoni su tre accordi un po’ depressi e il chitarrino, a furia di suonare nei bar, è riuscito a conquistare i palazzetti e il nostro cuore (o perlomeno quello di migliaia di adolescenti e pre-adolescenti italiani, a giudicare dalla media d’età dei presenti. E non so se sono gli stessi che ascoltano la DPG, ma io ero davvero felice di vederli lì).
E anche se l’acustica faceva abbastanza molto schifo e la combo con il superospite Cosmo musicalmente non sia stata proprio un grande momento, non ho visto una sola persona lamentarsene all’uscita. C’erano solo tanti sorrisoni felici e un’atmosfera di sana eccitazione. Comunque la si pensi, è innegabile che Calcutta, con la sua attitudine (più o meno studiata) alla vita e alla fama, porti in giro un’immagine di sè e delle ragione di fare musica più salutare e simpatica di tanti altri. Se a questo aggiungo il non indifferente valore artistico di quello che canta, per me è un motivo più che sufficiente per volergli bene.
Mi racconto in una frase
Famelica divoratrice di musica e patatine (forse più di patatine), diversamente social e affetta dalla sindrome di “ansia da perdita” (di treno, chiavi di casa, memoria
e affini).
I miei 3 locali preferiti per ascoltare musica
Auditorium Parco della Musica (Roma), Locomotiv Club (Bologna), Circolo Ohibò (Milano).
Il primo disco che ho comprato
“Squérez?” dei Lunapop, a 10 anni. O forse era una cassetta.
Comunque, li ho entrambi.
Il primo disco che avrei voluto comprare
“Rubber Soul” dei Beatles.
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso
Porto avanti con determinazione la lotta per la sopravvivenza della varietà linguistica legata alla pasta fresca
emiliana: NON si chiama tutto “ravioli”, fyi.