Ho un adesivo dei Lowinsky appiccicato di fianco alla lavatrice. È una scritta nera su sfondo rosa. “Read a fucking book”, dice. Quando lo guardo penso sempre la stessa cosa: “È un buon consiglio”. Un po’ perentorio, ma comunque un buon consiglio. Soprattutto di questi tempi.

Beh, io un libro lo sto leggendo, cari Lowinsky. Si intitola “Nostalgia”, di Eshkol Nevo, e non è niente male. Un romanzo a più voci, in cui la nostalgia, appunto, è intesa non soltanto come sensazione di mancanza per il passato, questo è ovvio, ma anche come l’impossibilità di un presente tranquillo e di un futuro inebriante.

Tutto questo spreco di righe per dire che, contro ogni aspettativa, l’LP d’esordio dei Lowinsky, “Oggetti Smarriti” (Moquette Records), sfugge al concetto di nostalgia così come è espresso nel mio “fucking book”. Ma perché sarebbe dovuto essere un disco nostalgico, vi chiederete voi.

Beh, i Lowinsky sono una band nata dalle ceneri di gruppi come Daisy Chains, Finistere e Sweet & Divine. Carlo Pinchetti (voce e chitarra), Davide Tassetti (basso) e Andrea Melesi (batteria) sono musicisti del sottobosco lombardo (diciamo tra Bergamo, Lecco e Milano), che hanno vissuto in pieno l’ondata indie-rock e power-pop di fine Novanta e inizio Duemila. Roba che, obiettivamente, fai parecchia fatica a toglierti di dosso. Perché se sei cresciuto a pane e Lemonheads, hai voglia a passare alla dieta synth-pop che va tanto di moda oggi.

Qui la chitarra è ancora il piatto forte. C’è e ci deve essere, pena l’espulsione a vita dal movimento. Insomma, se l’indie-rock fosse la cucina di Master Chef, un errore di questo tipo ti costerebbe il grembiule (scusate, se è porno lo tolgo, come dicono i giovani). E invece, guarda un po’ che bravi, i Lowinsky non ci fanno mancare proprio niente. A dispetto del titolo, “Oggetti Smarriti” ha tutte le sue cosine al posto giusto, compresa la bella copertina realizzata dall’illustratore Barney Bodoano.

Dicevamo, ci sono i fendenti dei primi Nada Surf (Coltelli), ci sono le carezze elettriche degli Ash (Seppuko), qualche reminiscenza del passato con i Finistere (Bandiera) e, più in generale, c’è la voce di Carlo Pinchetti, sempre in bilico tra J Mascis, Tim Wheeler e l’alternative italiano di quegli anni. Voce che va a nozze con i testi dello stesso Carlo, impregnati di immagini simboliche, ma non del tutto esenti da un certo realismo e dai riferimenti al vissuto personale (2013).

Perdita, solitudine (Macigno) e depressione sono i temi più ricorrenti, anche negli episodi più acustici (Vacanza Paradiso). Se in termini musicali questo approccio può rientrare a pieno titolo nella categoria “emo”, in senso puramente letterario si avvicina alla poetica decadente. Non a caso, infatti, i Lowinsky hanno scelto di dare una veste sonora a L’Ennemi, poesia di Charles Baudelaire, qui cantata nella sua versione originale in lingua francese. Non mancano, infine, altri riferimenti più o meno colti: dal film “Reality Bites” di Ben Stiller (Lelaina) al poema epico “Paradiso Perduto” di John Milton (L.M.R.).

È vero, tutta roba datata. Ma non si tratta di un’operazione nostalgia, né di una qualche forma di rimpianto per i tempi (musicali e non) che furono. Con il linguaggio di cui una band di questo tipo non può certo fare a meno, i Lowinsky parlano piuttosto di tante piccole catarsi, certamente sofferte, ma per loro natura iniziatiche.

Nel libro che sto leggendo (il fucking book, chiedo venia) mi sono sottolineato queste due o tre righe: Il primo appuntamento è sostanzialmente un concerto. Si mangia, si beve, ci si racconta il riassunto della propria vita, ma di fatto ci si limita ad ascoltare la musica interiore di chi si ha di fronte. Ecco, al loro primo appuntamento da reduci, i Lowinsky ci fanno ascoltare la loro musica interiore. Con i piedi nel passato, ma lo sguardo rivolto al futuro.

Paolo