Abbiamo incontrato gli islandesi Vök poco prima del loro concerto al Fabrique di Milano, in opening ai conterranei Of Monsters And Men. Il loro ultimo disco “In The Dark” è quella che oggettivamente potremmo chiamare una vera bombetta. Energico, ritmato, elegante: se ancora non lo avete incrociato, è il momento di recupare! Ne abbiamo parlato con Margrét Rán, co-fondatrice, cantante, chitarrista e tastierista della band, ed Einar Hrafn Stefánsson, batterista.
Intervista a cura di Giulia Zanichelli
Ho cercato la traduzione italiana del vostro nome e credo sia “buco”, “frattura”, è esatto? Perchè avete scelto questo nome per la band?
MARGRET: Sì, significa letteralmente “buco nel ghiaccio”… Per quanto riguarda la scelta, ne abbiamo discusso, avevamo un paio di nomi in ballo, poi Andri (che prima era nella band, l’abbiamo fondata insieme io e lui) se ne è uscito con questo nome, Vök, e io ho pensato “Che cosa?”. Non avevo mai sentito quella parola prima di allora! Quindi lo abbiamo provato e abbiamo pensato che fosse perfetto.
“In The Dark” è un titolo abbastanza esplicativo. Ogni canzone porta avanti una sorta di battaglia tra il bene e il male, per affrontare le sfide della vita e andare avanti. Questo fil rouge è una cosa voluta, che avete cercato fin dal vostro ingresso in studio, oppure è venuta naturalmente?
M: È venuta naturalmente, ce ne siamo accorti solo alla fine: abbiamo guardato tutte le canzoni ed era lì. Una sorta di casuale concept album, molto personale.
È stato difficile scriverlo, sentendolo come una cosa così personale?
M: No, è stato bello, credo sia stato più che altro bello liberarsi di tutto quel peso che avevo dentro!
Nasce prima il testo o la musica?
M: La musica. Registriamo le canzoni con il “minion singing”, come lo chiamo io… Con la mia voce che fa “lalala”, e poi capisco quali parole possono andare dove, e dò al tutto un senso.
Il disco ha preso forma tra Notting Hill a Londra (nello studio del producer James Hearp) e Reykjavík. Cosa avete preso da ogni città? Erano entrambe necessarie per permettere la nascita del disco
M: A Londra il tempo era davvero fantastico, caldo e soleggiato, ed è stato molto bello fare avanti e indietro da lì! Quindi credo che le atmosfere più luminose del disco vengano da lì… anche dal cibo, dalla pizza e dal rosé!
Sono passati due anni tra questo lavoro e il precedente, “Figure”. Cosa è cambiato, cosa è rimasto uguale?
M: Non saprei, noi cerchiamo sempre di evolvere, di fare qualcosa di meglio e di nuovo. Questo album volevamo che fosse un po’ più positivo, ottimistico, perché “Figure” era un po’ più “depresso”, diciamo…
EINAR: Sì, lo volevamo più arioso, più fluttuante.
M: Anche noi poi siamo un po’ cambiati come band, siamo diversi, non siamo più le stesse persone che eravamo all’inizio, io sono l’unica rimasta della formazione originale!
Credete che ci sia un brano che possa rappresentare meglio di tutti il disco e le sue intenzioni?
M: A me piace molto In The Dark, ha questa oscurità unita alla positività che ben rappresenta tutto l’album. Anche il suo testo credo sia il più rappresentativo. Ma anche Round Two.
E: Sì, Round Two è quel tipo di brano che maagri non ti colpisce tantissimo quando lo ascolti, ma che suonato live diventa potentissimo!
Ho letto che siete stati in tour un po’ in tutta Europa… Ci sono stati paesi dove suonare è stato più facile e altri dove invece è stato più complicato empatizzare con il pubblico?
M: Credo che in Germania e in Polonia i nostri live siano andati molto bene. Forse la Gran Bretagna è stata quella più complicata…
E: Sì, è un po’ più difficile, ma dipende dalle città, ad esempio a Londra o a Brighton è stato molto bello.
M: Anche l’Italia forse è stata un palco un po’ difficile per noi la prima volta che siamo venuti.
Credete che per voi, che venite dall’Islanda, sia più difficile entrare nel “sistema” musica, diventare popolari?
E: Beh, sicuramente viaggiare e fare tour per noi è molto più costoso. Però credo che essere islandesi ci aiuti, nel senso che la gente magari si interessa proprio per questo, perché veniamo dall’Islanda.
Quali sono gli artisti che ascoltate e che vi ispirano?
M: Tantissimi, è difficile rispondere… Anche perché oggi, con questa moda delle playlist ad esempio su Spotify, si possono scegliere canzoni e riascoltare la propria playlist all’infinito, il che è un bene e un male al tempo stesso! Ma, per fare qualche nome, adoriamo i Tame Impala, gli XX, James Blake,..
E: sì, oggi è più difficile appassionarsi a un intero album, ci si innamora più facilmente di una sola canzone. Ma questo rende ancora più bello riuscire a trovare un album (come per me è stato con l’ultimo dei Tame Impala) che ti piace ascoltare e riascoltare interamente. Ma il mercato oggi va così, c’è così tanta musica che esce ogni settimana che è difficile ascoltarla tutta in modo completo.
Ultima domanda: conoscete o ascoltate qualche band o cantante italiano?
E: Beh, certamente conosciamo i cantanti lirici.
M: E poi c’è quel ragazzo molto bravo che è andato all’Eurovision…che canta “Soldi, Soldi” (canticchia la melodia)
Mahmood!
M: Esatto, lui!
Mi racconto in una frase
Famelica divoratrice di musica e patatine (forse più di patatine), diversamente social e affetta dalla sindrome di “ansia da perdita” (di treno, chiavi di casa, memoria
e affini).
I miei 3 locali preferiti per ascoltare musica
Auditorium Parco della Musica (Roma), Locomotiv Club (Bologna), Circolo Ohibò (Milano).
Il primo disco che ho comprato
“Squérez?” dei Lunapop, a 10 anni. O forse era una cassetta.
Comunque, li ho entrambi.
Il primo disco che avrei voluto comprare
“Rubber Soul” dei Beatles.
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso
Porto avanti con determinazione la lotta per la sopravvivenza della varietà linguistica legata alla pasta fresca
emiliana: NON si chiama tutto “ravioli”, fyi.