Gigi Giancursi è stato membro fondatore e chitarrista dei Perturbazione fino al 2014, per poi continuare a dedicarsi alla musica e alla cultura in generale come cantautore e collaboratore di tantissimi progetti. Negli anni ha avuto modo di lavorare anche con Paolo Benvegnù, di conoscerlo da vicino e condividere esperienze con lui. Per questo gli abbiamo chiesto un ricordo del compianto artista scomparso nei giorni scorsi. Gigi ci ha inviato un testo commovente, che pubblichiamo qui sotto.

 

Io lascio che le cose passino e mi sfiorino
perché non sono in grado di comprenderle.

Queste sono le parole precise per descrivere la prima reazione che ho avuto alla notizia della scomparsa di Paolo. E credo che tutti abbiano, per un attimo, cercato rifugio in qualcosa di quotidiano, di percepito come reale, di sicuro, per trovare un appiglio di fronte a tanta illogicità e non senso. La quasi totalità delle persone che conosco e che lo conoscevano hanno trovato questo appiglio attraverso la stesura di un post, attraverso quella che oggi chiamiamo “condivisione”.

Paolo era ovunque, vulcanico, inarrestabile, nomade, come lo avevo definito in un’intervista, apolide, come aveva tenuto a precisare per autorappresentarsi ancora meglio. Incastonato nella sua giacca, il suo portamento elegante, tenero, seducente intellettualmente. Rappresentava per chiunque una sponda, accentrando su di sé gli sguardi, i discorsi, un vero e proprio istrione. Quante volte succedeva, dopo i suoi concerti, di ritrovarsi chiusi in un cerchio umano di cui Paolo rappresentava l’esatto centro, dialogando con tutti, freezati in un sorriso ebete che non poteva non nascere sentendolo parlare e vederlo lì, in carne ed ossa, dedicarsi totalmente all’audience che prima aveva sognato attraverso la sua fisicità e la sua voce incredibile, neniosa in senso religioso, che sembrava fatta apposta per portarti altrove. E tutto questo era un contrasto incredibile. Perdio, ci si sarebbe aspettati un atteggiamento più dimesso, più sofferente, meno ilare, meno umile, più altezzoso. Invece no.

Paolo poteva parlare per ore, toccando tutti i temi ma senza mai sviscerarli fino al fondo, senza darne una visione definitiva, senza emettere una sentenza. Quando i discorsi si facevano troppo seri, o troppo centrati su di lui, Paolo si sfilava come la migliore delle anguille attraverso l’altissimo senso dell’ironia che lo animava, componente quasi ontologica del suo essere sotto il palco. Noi, troppo suggestionabili, forse non ce ne siamo mai resi conto.

Un giorno ci è successa una cosa, in un bar di Rubiera aperto a notte fonda, eravamo solo noi due, alla ricerca del cappuccino e della brioche. Era il periodo in cui stava producendo il disco dei Perturbazione, “Canzoni allo specchio”. “Piccoli fragilissimi film” era uscito da un anno. Passavamo intere giornate e nottate a parlare di musica, a registrare, a provare e riprovare, fare e disfare, a entrare in conflitto, ad esaltarci per una registrazione riuscita, a fare foto idiote, ad ascoltare musica altrui, a raccontarci. Nel bar, in fondo, un signore in piedi stava facendo colazione, visibilmente sfatto dalla nottata, così come lo dovevamo essere noi. Ma quel signore era quello di Sgarbi quotidiani, quello in piedi, dietro Vittorio Sgarbi, inutile orpello della trasmissione, come Fabio e Mingo (uno dei due lo era per l’altro, non mi ricordo chi dei due lo fosse). Noi eravamo là, come un fiume in piena e lui era sullo sfondo, testimone assente di quella serata. Era come se fossimo entrati in uno studio televisivo, con gli occhi puntati su di noi ma la vera star era lui, colui che avevamo riconosciuto. Eravamo forse noi gli orpelli di tutto ciò che si stava muovendo? Un segno metafisico del destino? Un moltiplicarsi di prospettive in cui il fuoco non era puntato su di noi?

Nel leggere i diecimila coccodrilli su Paolo, questo compreso, nel vederlo abbracciato a tutti e a nessuno, contemporaneamente, mi è sembrato paradossalmente trasformato in quel cartonato del tipo di Sgarbi quotidiani (apprendo da wikipedia che il suo nome è Abramo Orlandini, ma poco importa).
Ognuno di noi al centro delle proprie vite e Paolo sullo sfondo, a nobilitare le nostre esistenze perché è entrato per poco nel nostro set televisivo, immobile, ieratico, ci muoviamo ma siamo immobili. Paolo è come una farfalla e noi gli entomologi. Ognuno avrebbe voluto pizzicarlo in una teca con lo spillo per averlo sempre lì accanto, ammirarne i colori, la forma, le sfumature. Io lo inchiodai alla mia vita nel periodo di “Canzoni allo Specchio”, periodo nel quale lo invitai anche a suonare in quella che definivo la mia seconda casa, se non la prima, Casseta Popular, dove conquistò tutti.

Poi mi successe di inchiodarlo altre due volte. La prima, durante il secondo lockdown, quando ci sentimmo al telefono per l’intervista sui Beatles legata alla mia trasmissione sull’argomento. La puntata è la trentaquattresima, quella dedicata a All together now. È lì che si autodefinì apolide. È anche lì che disse che Ringo Starr è quello dei Beatles in cui si riconosceva di più, quello a cui voleva più bene. È lì che disse che a cinque anni andò a comprare “Photograph” di Ringo Starr dopo lo scioglimento dei Beatles.

Tutti oggi si ricordano la sua ultima esibizione da Bollani, in via dei Matti n.0 dove, con quella sua fossetta sulla guancia, dichiara di essere rimasto folgorato da George Harrison, a cinque anni, guardando in TV il concerto per il Bangladesh. Paolo Benvegnù come i veri bluesman, in una costruzione di realtà, come Big Fish, la realtà che percepiamo è la somma delle realtà adiacenti, ha detto citando Harrison che probabilmente non ha mai pronunciato questa frase, perlomeno non in questo modo.

L’ultima volta che ho inchiodato Paolo è stata invece in un’occasione speciale, un concerto a due mani, a Giaglione (TO), nell’estate del 2021. Doppio misto avevamo chiamato questo concerto. Entrambi sul palco a commentare l’altro mentre suonava, a rovinare le canzoni dell’altro con inserimenti jazzistici secondo il famoso metodo Randazzo e viceversa. In quell’occasione ho conosciuto anche le due persone che invece di Paolo ne condividevano la vita quotidiana (alle quali dedico l’abbraccio più forte che possa essere trasmesso), abbiamo passato insieme tutto il pomeriggio, la serata e la mattina successiva. Poi hanno caricato sulla macchina tutto, ci siamo salutati in maniera davvero affettuosa, e sono ripartiti.

Paolo non ha mai avuto delle macchine rassicuranti, questo fatto ci ha sempre accomunato, si tenta la partenza, si spera nell’accensione, ma non si conosce se ci sarà l’arrivo che in qualche modo accadrà, indipendentemente, dalla volontà dell’autista. Esattamente come scrivere queste righe. Mannaggia la madonna, Paolo, mannaggia la madonna!

Gigi Giancursi

 

La foto di copertina è di Paolo Pavan