Come si scrive una recensione su un lavoro di Benvegnù? Non la si dovrebbe scrivere infatti. Perché recensire Paolo Benvegnù è come giudicare una riflessione che si diffonde matura dopo aver passato in rassegna tutte le emozioni umane. Avreste il coraggio? Io no.
Eppure qualcosa va detta. L’uscita del singolo Pietre è stata una boccata d’aria, una speranza, una garanzia. Perché la musica di Benvegnù non è qualcosa che puoi pretendere quando ne hai bisogno. Lei sa quando arrivare.
«Pietre è un’ode all’attesa, all’Invenzione dal Niente. E nell’Invenzione alle volte c’è Tutto. Anche dell’Odio, dell’Innocenza».
Il nuovo disco è un saggio breve sulle emozioni umane più contrastanti. Emozioni che si scontrano tra loro, creando ora arcobaleni, ora grandi temporali in un tempo indefinito che si mescola armoniosamente come i suoni di chitarre acustiche e chitarre elettrice su solide basi ritmiche che caratterizzano “Dell’odio dell’innocenza”.
«I dischi sono come libri, sono come figli, sono come ogni cosa. Per raccontare in profondità il Reale, bisogna sapere immaginare dal Vuoto.».
E la bellezza della profondità dei dischi di Benvegnù la si tocca confondendoli tra di loro. Solo così è possibile percepirne la cura e l’attenzione per ogni dettaglio, riconoscendone uno stile inconfondibile, ma in grado di rendere ogni album perfettamente definito nella sua intenzione. “Dell’odio, dell’innocenza” non è “Le Labbra”. Ma non è neanche “H3+”. Non è “Piccoli fragilissimi film” e non è “Earth Hotel”. Ma tutti sono legati da uno stile preciso, che nel tempo ti si radica dentro, destinando a diventare tassello prezioso dei tuoi ascolti preferiti.
“Dell’odio e dell’innocenza” non può essere un disco come i precedenti per l’idea da cui nasce: uno scenario in cui il nuovo disco viene spedito al cantautore, via posta, da un mittente sconosciuto.
«Dopo un sonno relativo, decido che chi ha scritto e registrato in modo rudimentale tali canzoni ne aveva la stretta necessarietà. La scrittura mi pare abissale e profonda, vagamente imperfetta e verbosa, vanamente protesa alle risoluzioni degli esseri umani. Quasi un campionario ideale di impossibilità».
Se qualcuno dovesse provare a chiamarla “mancanza di idee”, significherebbe annullare il lavoro di un sapiente artigiano della musica che sa come isolarsi dal mondo e darsi totalmente all’arte, limando – questa volta – sensazioni, profumi di gelsomino e il canto antico di mondi perduti.
Non provate a fare classifiche con altri dischi in uscita. Non provate a riportarlo a ciò che sta accadendo intorno. Basterebbe una banale riproduzione random con altri artisti per notare quanto tutto sia un passo più avanti. Sono brani “pieni”, quelli che si susseguono come immagini di un unico film. Brani che non si lasciano analizzare nella loro singolarità, ma che fanno parte di un flusso che promuove il disco a pienissimi voti.
E se non sono riuscito a spiegarvelo in maniera più semplice, spegnete tutto e premete play.
Renato Murri
