Milano, 8 marzo 2018
“The man himself”, l’icona, l’uomo, “il Cesare” come lui ama definirsi, fa la sua comparsa di fronte a un pubblico rovente. Gli occhiali neri spessi, una kefiah che gli avvolge il capo, la sua immancabile thwab color kaki, la tunica tradizionale siriana, e un largo sorriso sornione.
Nato nel 1966 in un piccolo villaggio a nord della Siria, si narra che abbia pubblicato circa cinquecento live, ognuno di essi rigorosamente registrato in formato VHS. Queste videocassette, che venivano donate alle coppie di sposi, sono state poi duplicate e oggi, dalla Giordania alla Turchia, taxi impolverati diffondono il verbo del profeta della dabka moderna.
Fin dall’infanzia Omar Souleyman si è cimentato nel canto del Medio Oriente, la dabka appunto, ma i ritmi frenetici che lo hanno proiettato tra le stelle della galassia arabica hanno iniziato a ripercuotersi anche in Occidente solo dal 2006, quando è stato scelto da una etichetta di world music di Seattle, la Sublime Frequencies, che ha aperto vie impensabili per la sua musica e il suo personaggio. Da lì una storia dove la magia, la fama, la nostalgia e le tastiere si impastano al ritmo delle mani grosse di Omar, un tempo agricoltore, oggi leggenda.
La consacrazione finale arriva nel 2013 quando “Wenu Wenu” viene prodotto da Four Tet. Nel 2015 è costretto a riparare in Turchia e pubblica nello stesso anno “Bahdeni Nani” (Monkeytown Records), prima alcune scorribande su palchi d’eccellenza come Glastonbury (2011) e collaborazioni con dei pesi massimi dello scenario alt ed electro, tra cui Bjork e Caribou. Due anni fa, il suo ultimo lavoro “To Syria, with Love” (2017).
Il suo marchio unico è distante anni luce da quelli che possono essere i nostri gusti più avanguardistici. Vuoi per la sua esoticità intrinseca, vuoi per l’esperienza surreale del concerto, è quasi impossibile non pestare i piedi e ondeggiare in un rituale quasi-primitivo sotto il palco. La musica di Omar non è la dabka classica: unisce lo stile iracheno alle liriche curde, e il tutto viene suonato a una velocità impressionante. Anche noi sotto il palco che non intendiamo alcuna parola, siamo trascinati dall’insistenza delle tastiere suonate a una velocità euforica e dalla voce di Souleyman. Dietro di lui la mente, Rizan Said, che fonde con la sua tastiera Yamaha la musica folklorica all’acid e alla psichedelia.
“L’area in cui ho vissuto era una sorta di triangolo: c’erano turchi, cristiani e curdi e io ero solito suonare in ognuna di queste aree. Ogni posto aveva il suo stile musicale specifico e io mi adattavo in base all’area dove si teneva la festa di matrimonio. Imitavo semplicemente il loro modo di suonare, univo il loro folklore al mio stile”
C’è qualcosa di insondabile e incomprensibile nella venerazione per Omar, e non credo si possa parlare di hype o di novità in quanto ormai parliamo di una presenza fissa da diversi anni in Europa, sia nei club che nei grandi festival. La comprensione che noi possiamo avere di quei suoni ammalianti e di quei versi il cui significato ignoriamo per ora non ci è data. Almeno io non la ho. Forse è una scheggia impazzita che ha creato una crepa tra gli steccati che poniamo tra la musica orientale e quella occidentale. E forse può essere uno spunto dato a ognuno di noi per aprirsi a nuove latitudini geografiche della musica e scoprire qualcosa di interessante.
Oggi gli amici, gli sposi per cui ha cantato e i parenti di Omar Souleyman sono sparsi per l’Europa, l’Iraq, la Siria e la Turchia, dispersi dalla guerra e dal fondamentalismo islamico. Vogliamo immaginare Omar sorridente di fronte al pubblico di ragazzi del Magnolia che ricorda gli anni in cui intratteneva il pubblico ai matrimoni nei villaggi in Siria. E dopo il concerto tornava a casa, si ritirava a sorseggiare del te, parlando ai suoi figli in giardino, e magari proprio in quel momento, insieme a loro, poteva togliersi gli occhiali da sole.
Andrea Frangi
