Laura Veirs, da Colorado Springs, ha ordinato questa manciata di canzoni in procinto di separarsi da suo marito, Tucker Martin, produttore con il quale poi ne ha condiviso la registrazione; le lacrime mischiate ai sorrisi di una complicità ormai da rimpiangere lo sa solo Iddio cos’hanno prodotto in termini emotivi. Tuttavia, con il cinismo che ci compete, diciamo anche che quando si esce da una relazione,  qualcosa di buono arriva sempre. I Fleetwood Mac, con gli stracci e le lenzuola che piroettavano negli studi, c’hanno scritto il loro bestseller, dimostrando che i pezzi di vetro è bene lasciarli lì anziché ricomporli.

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In “My Echo”, Laura ci va giù pesante, parole e sentenze che non lasciano scampo al problema dei problemi che per quanto si sia vissuto e sperimentato, o letto chissà quanti libri, rimane inevaso e coglie tutti impreparati: sarò pronto/a ad affrontare la Fine? In All The Things la voce sussurra “tutte le cose che non posso tenere in mano non posso salvarle”, come a dire che nulla sotto il proprio controllo rimane davvero, nel senso più bello e pieno, senza per questo scivolare patologicamente nella possessione esclusiva. “Sei ovunque, ombra nella grondaia, messaggero del sentimento oceanico con i piedi per terra”, prosegue.

Laura Veirs ha interpretato ogni sillaba di queste canzoni raccogliendo forze che le provenivano chissà da dove, d’altronde quando sei giunto al capolinea è proprio dal mondo che devi ricominciare. Inspiegabilmente, la malinconica presa d’atto di un fallimento non si traduce in commiserazione dolente.

Il disco perviene a una conclusione che mi ha fatto venire in mente Sharon Van Etten, cui per altro possiamo apparentare la stessa Veirs, che non molti anni fa, in apertura del suo più bel disco, mormorava sollevata l’incantevole Afraid Of Nothing. Nulla di spaventoso è accaduto, diceva, ricongiungersi con sé stessi è la sola prova
che attende chi della paura vuole conservarne solo il coraggioso superamento.

Alberto Scuderi