Applausi, strette di mano, ringraziamenti. La buona riuscita di un live si misura anche da questo. Ma niente vale più della complicità di un amico, che a fine concerto ti abbraccia e ti urla nelle orecchie il nome del gruppo. Così, senza aggiungere altro. Perché un urlo si porta dietro un mucchio di emozioni. E poco male per l’udito, tanto il timpano sinistro è già sfondato. Allora te lo ripeto: “Girlsnames! Girls Names!”. Si può andare a letto felici anche un lunedì sera da brividi come questo.

Già visti lo scorso giugno al super festival A Night Like This di Chiaverano, prova perfetta di inizio estate. Sono tornati a Milano in questo inverno ormai agli sgoccioli. Freddo e umido sono la loro linfa. Tra scariche post-punk e rimandi psych, la band di Belfast fa delle atmosfere cupe il proprio marchio di fabbrica. E così il corridoio buio del Lo-Fi si è trasformato fin dalle prime note nel guanto perfetto in cui sudare duro stringendo i pugni. Il piedino, anche lui, batteva forte sul pavimento. Instancabile.

I quattro nord-irlandesi hanno dato spazio a molti brani dall’ultimo “Arms around a vision”, forse il miglior disco del gruppo. Reticence arriva quasi subito, primo minuto di isteria noise e via di slancio con la sua meravigliosa apertura melodica. La voce monocorde di Cathal Cully (tra Ian McCulloch e Tony Cadena) mantiene i toni bassi. Certi excursus brit-pop restano soltanto in penombra. E allora vanno in fuga i gregari: Claire Miskimmin al basso è una macchina da guerra. Adorabile quando scalcia e si dà la carica. Segue a ruota Gib Cassidy, ciuffo grigio tira e molla. Alla batteria macina i chilometri. Ecco, il sound dei Girls Names dipende tutto da loro. Dalla ripetizione ciclica e ossessiva degli accordi, climax ascendente oltre i confini della new-new wave. Non è un caso se pezzi come Hypnotic Regression, sotto il palco, possibilmente a occhi chiusi, diventano viaggi a freni rotti. Apoteosi con A hunger artist. Poi il citato abbraccio. “Good show, guys!”, e arrivederci alla prossima.

Paolo Ferrari