Mala tempora… eccetera: uomini e donne che guardano al futuro annichiliti dal rancore e dalla paura e si affidano agli imbonitori; snobboni che invece di trovare la connessione emotiva per capirli e fare sintesi, perdono tempo a lamentarsi di come questi cafoni sporchino il tappeto. Ecco, i Lemon Twigs, che non sono altro che un onesto gruppo rock arrivato ora al terzo album (oltre all’EP “Brothers of Deconstruction” del 2017), da questo punto di vista ne escono bene.
Perché è vero, sono dei retro-glam-rocker da “make it great again”, ma curano tutto con una tale dovizia nella produzione e negli arrangiamenti che gli perdoniamo il fatto di essere a volte così scontati e nostalgici. E in ogni caso, il loro modernariato è un’imitazione che appare contemporanea in modo lampante, non un falso d’autore insomma.
Il glam rock, il power pop, la bubblegum music, il fotoromanzo e addirittura il vaudeville potrebbero far pensare pertanto a un rock trumpiano alla ricerca di un passato che non tornerà, roba da museo o da crociera, ma i toni pastello e i suoni striduli da poeti della suburbia ricordano piuttosto la poetica di Wes Anderson. Menzione d’onore per Hog, che potrebbe figurare nel canzionere di qualche neomelodico mediterraneo, e per la finale Ashamed, che si dimentica delle pajette per immergersi in una ballata puritana arricchita da un feedback ben temprato.
Alessandro Scotti
Mi racconto in una frase: vengo dal Piemonte del Sud
Il primo disco che ho comprato: “New Picnic Time” dei Pere Ubu è il primo disco che ho comprato e che mi ha segnato. Non è il primo in assoluto ma facciamo finta di sì.
Il primo disco che avrei voluto comprare: qualcosa dei Pink Floyd, non ricordo cosa però.
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso: la foto della famiglia di mia madre è in un museo, mia madre è quella in fasce.