Finalmente un’opera prima e aperta – nel senso inteso da Umberto Eco – che non dice assolutamente niente. Finalmente! Lo mette in chiaro Luca Barbaglia, giovane ma rodato musicista milanese, in chiusura alla sua Scatola Nera, impressionante e raffinata prova di bravura registrata al Supermoon studio di Giacomo Carlone (Egokid); bisogna infatti aspettare l’ultima traccia per ricevere una viabile e retroattiva chiave di lettura: “Il vero è solo il velo che censura il seno dell’ambiguità”.
Sono proprio ambiguità e finzione, ritrovamento e illusione, a costituire una viabile chiave di lettura per la fantasmagoria sonora di questo disco. I frammenti portati a riva contro la rovina giocano fra loro in un riverberarsi di ballate folk e cori di menadi (L’elefante) e scorci di ragtime, marcette vaudeville/pop sixties (Scatola Nera #2) e arpeggi à la Bob Dylan di “Pat Garret & Billy the Kid” (Strada Chiusa).
Tutto comincia tuttavia con una ovattata gemma sottratta al fantasma di Gershwin (Remnant #33), innestando un registro che fungerà da ideale cerniera per le stazioni di Scatola Nera. Non parlo a caso di uno spettro: articolando la sua Hauntology, il vecchio Derrida parlava infatti del fantasma come quella cosa che “inizia ritornando” (it begins by coming back suona meglio, in francese non saprei). È esattamente così che inizia questo disco, una serie di incisioni improntate proprio ai liberi assemblaggi dell’Hauntology, la falsa archeologia, il rimando a metà, l’artificio che cerca e trova senza sforzo l’agilità del naturale.
Scatola Nera non ricorda nulla di italiano che io abbia mai sentito. Posso al più immaginare a chi potrebbe piacere (gente come Manuel Agnelli? Forse Morgan, forse Vinicio Capossela… Francesco Bianconi per un certo gusto barocco, ma mai presuntuoso). A livello internazionale – e la butto lì malamente – se per qualche assurdo motivo il Dylan delle più recenti operazioni di recupero (vedi “Shadows in the Night”) lavorasse con il progetto inglese Caretaker (nome di riferimento in ambienti hauntology) e Iron and Wine, il risultato potrebbe richiamare il modus di questo disco.
In effetti, un modus – una misura – sussiste nella scatola nera, e riesce a farsi fruibile con una certa scaltrezza attraverso cascate di simboli e gallerie di personaggi. È questa una strategia vincente nello scambio fra le suggestioni marinaresche di Poe e Melville in “Tekeli-lì” e il felice lirismo de “Il Pescatore di Perle (Una favola)”: «Che strana vita», pensa il pescatore dopo essersi tuffato, «andare ogni giorno a fondo spingendosi con i piedi contro il sole».
Ora, io sarò anche un vecchio trombone snob, ma di soli di Riccione, pizze mangiate in solitudine e svastiche sui muri di Bologna ne abbiamo già abbastanza, no? Scatola Nera, bisogna dirlo, evita piuttosto platealmente questa tendenza al “piccolo ma di cuore” che mi sembra andare molto nella canzone italiana: all’onestà autobiografica dei cuori sensibili alle prese con vignette suburbane del tutto plausibili, la scatola nera contiene la favola, e non vuole dire niente – piuttosto suggerisce altri modi di dire e di sentire. La vita è una favola di cui si perde il significato crescendo, diceva Lawrence Durrell. Ogni tanto può tuttavia fare bene chiudere gli occhi per qualche minuto e riaffacciarsi sulle nostre scatole nere.
Bartolo Casiraghi