Milano, 27 giugno 2018

Verso la fine del concerto, uno spettatore ha chiesto a Ron Gallo di togliersi il cappello. Lui è rimasto stupito. Ha sgranato gli occhi e lo ha levato per un attimo, con tanto di inchino. Ma non aveva per nulla capito le intenzioni: il sogno del suo fanatico seguace era quello di vederlo suonare per il resto del live con i suoi fantomatici ricci liberi di dimenarsi. Chissà perché, poi. Fatto sta che il musicista di Philadelphia, anziché accettarla come una smania da voyeur, l’ha presa come una richiesta di genuflessione al cospetto del pubblico. E così ha fatto.

Bene. Se questa immagine si riassumesse soltanto in uno sparuto episodio di malinteso (in una serata a dire il vero perfetta), ricordarla in un live report sarebbe piuttosto superfluo. Ma quando penso a Ron Gallo, quando lo osservo suonare al Circolo Magnolia, è proprio a partire dalla sua capigliatura che mi saltano in mente i primi richiami alle sue origini musicali.

I’ll be your mirror

Il primo fantasma ad apparire alle sue spalle sul palco dell’idroscalo è certamente Lou Reed. Uno che tra i ricci infilava messaggi al veleno, trasgressione tutt’altro che implicita e infinita poesia decadente. Dallo zio Lou, il giovane artista americano ha assorbito la lezione proto-punk a colpi di chitarre sgangherate e affilate quanto basta. L’accanimento sullo strumento mostrato nell’introduzione di Always Elsewhere, il primo brano in scaletta, ne è una conferma. Così pure il nuovo singolo Really Nice Guys, infilato a sorpresa nella prima parte del live. Ma a differenza dei Velvet Underground, Ron Gallo riduce al minimo la deriva psichedelica mutuata dalla voce di Nico nel primo disco, a favore di un approccio decisamente più frontale. Alla Ty Segall prima maniera.

Dal garage più cazzone, i Ron Gallo (già, perché Ron Gallo è anche il nome della band, come ha tenuto a sottolineare il nostro) hanno ereditato non solo i suoni primordiali, la voce riverberata e gli urletti striduli alla John Dwyer, ma anche un certo modo di tenere il palco. Da un set essenziale costruito sul basso di Joe Bisirri e sulla batteria di Dylan Sevey, i pezzi che in studio suonano più tirati, come It’s All Gonna Be OkYoung Lady e You’re Scaring Me (quest’ultima suonata prima dell’encore), nella versione live si trasformano in cavalcate selvagge che potrebbero durare per l’eternità.

La sua marcata vena ironica, che spesso e volentieri ispira un abbigliamento che si fatica a definire standard, porta il musicista della Pennsylvania ad alternare la musica a qualche siparietto da avanspettacolo. Specie in Italia. In questo breve tour nel Belpaese, infatti, il ragazzo deve aver maturato una particolare passione per la nostra lingua (i suoi antenati sono siciliani, lo ricorda lui stesso). Tanto che a metà concerto, solo per citare una delle tante pause studiate a tavolino, estrae un foglio scritto in italiano e lo legge in pubblico presentando la sua band. Per impacchettare questo nuovo fenomeno indie in una scorza che è quasi pop, si aggiungano un paio di finti litigi con i compagni di palco, la cover a sorpresa di Something Stupid di Frank Sinatra e un improbabile intermezzo di campana tibetana.

Tell me about yourself

A proposito. Un altro arcinoto ricciolino sembra essere ben stampato nel Dna di Ron Gallo. Parliamo di Albert Hammond Jr, anche lui di scena in questi giorni al Magnolia. La musica dell’ex chitarrista degli Strokes si adagia sotto la stessa, sporchissima campana. Base rock’n’roll, qualche tecnicismo blues ben camuffato e uno spiccato senso della melodia. Ne è un’ottima testimonianza un pezzo come Put the Kids to Bed.

Ma la schiera di colleghi con cui Ron Gallo sembra condividere molto più che il solo parrucchiere non è finita qui. Tra una ciocca e l’altra si annodano le sue irrequiete aspirazioni cantautorali alla Tim Buckley e una certa tendenza (questa volta malcelata) al folk dylaniano. Il tutto mescolato in un unico grande show che ha aperto al meglio la stagione estiva milanese.

Non che la musica del nostro sia soltanto un banale cocktail di stili altrui, anzi. La chiusura affidata al piccolo classico All the Punks are Domesticated racconta con eccezionale sarcasmo la meravigliosa contraddizione che i musicisti controcorrente come lui sono costretti a vivere al giorno d’oggi. In un mondo in cui si dà voce a chiunque, ma in cui nessuno ha realmente qualcosa da dire; qui dove i punk non sono più animali da combattimento, ma cagnoloni castrati tutti da addomesticare; proprio qui, insomma, non ci resta che raccontare un po’ di noi stessi e delle nostre origini. Un esercizio che a Ron Gallo viene da dio.

di Paolo Ferrari

 

Qui la nostra photo gallery del concerto a Salsomaggiore Terme
Qui invece il divertente blog aperto da Ron Gallo sul suo tour italiano