Rock en Seine? Bien sûr, pourquoi pas?

“Perché dovrei andare fino a Parigi, sobbarcandomi i costi della trasferta, del vitto e dell’alloggio, per partecipare a un festival?” … Adesso ve lo spiego.

Ci ho messo i secoli a scrivere questo report. L’ho scritto, modificato, cancellato, riscritto. Perché? Perché ogni volta cambiavo il punto di vista del mio racconto. Beh, a furia di raccontare a voce com’è stato il Rock en Seine, mi sono convinta: eccomi, pronta! Partiamo dal presupposto che non sono una grandissima fan dei mangia baguette, così non mi potrete criticare troppo, ma qui, con il Rock en Seine, i francesini ci battono di non so quante lunghezze – o a mani basse, fate voi. Perché? Facile, ve lo riassumo.

Il festival compiva 20 anni questa estate, 20 edizioni, sempre presenti, imperterriti. Ero lì il primo anno che è stato organizzato, era il 2003, durava un solo giorno, c’erano due palchi e hanno suonato 10 gruppi (tra cui, attenzione, Beck, PJ Harvey e i Massive Attack) davanti a 22.000 persone. Poi i giorni sono diventati due, i palchi tre, poi i giorni tre e i palchi quattro, gli spettatori, da qualche migliaio sono arrivati a oltre 144.000. L’estate del 2023 ha vissuto un Rock en Seine di quattro giorni, cinque palchi e… 76 gruppi! Oltretutto si svolge in un mega parco, il Domaine National de Saint-Cloud. Scusate se è poco.
Le differenze tra il Rock en Seine e i festival nostrani sono molte: da noi ci si svacca solo per terra, lì si trovano sdraio, cuscini, amache e gonfiabili dove ripigliarsi, ci sono stazioni di ricarica per i cellulari, un sacco di sponsor hanno i loro spazi dedicati in cui organizzano eventi collaterali e lounge area dedicate, per il cibo avete l’imbarazzo della scelta (non solo panini e hot dogs, troverete cibo giappo, creolo, argentino, messicano, dolci e gelati di ogni tipo, ma anche uno storico carretto che distribuisce tè alla menta caldo fumante) e anche per il bere: birre di tutti i tipi, vino, JD, Ricard, Spritz e chi più ne ha più ne metta.
Ah si! Presente le file infinite per comprare quei maledetti token che non bastano mai e, se avanzano, ti rimangono sul gobbo? Ecco, al Rock en Seine l’hanno fatta mooolto figa! Quando compri il biglietto ti associano un bellissimo codice personale che è collegato a un chip messo su un braccialetto. Praticamente hai al polso una ricaricabile vera e propria. Ti gestisci quanto metti su e puoi sempre vedere il tuo credito via app. Finisce il festival e hai ancora dei soldi su? No problema, te li bonificano indietro. Basta contanti, portafogli persi e file infinite alle casse. Bomba vera!
Un altro pregio del Rock en Seine? La puntualità. Ci sono così tanti concerti (5 palchi, ricordate?) che i live iniziano e finiscono puntualissimi. Se dicono 17 e 40, non saranno le 17 e 46 o le 17 e 35. No no signori! Puntualissimi! A chi interessa? Beh, i live non si accavallano quasi mai e tu sei sicuro di riuscire a goderteli tutti.

Cos’ho scoperto quest’anno al Rock en Seine? Andiamo in ordine temporale,o quasi…
– Billie Eilish spacca. Punto.
– Upsahl: splendida new entry nella ma libreria musicale. Non fa indie, non fa rock, non fa pop. Mette insieme tutto, fa un grande minestrone che però va giù come fosse una vellutata. Ha inaugurato lei il palco più grande nel caldissimo pomeriggio del venerdì. Un bellissimo gioiello con cui è impossibile non ballare (ed è pure mooolto graziosa).
– Vi ho detto che ho visto anche Bertrand Belin? Beh, non ho capito se ci era o ci faceva. Lui convintissimo di essere il Nick Cave di lor’altri ma… anche no!
– Viagra Boys. Non ho parole. ‘Sti cacchio di svedesi fanno un post punk bello violento; il front man (Sebastian Murphy) è senza decenza e sale sul palco con su solo un paio di pantaloni della tuta, occhiali da sole e sigaretta, panza alcolica molto molto panza e tatuaggi old style ovunque, spudorato e arrogante, adorabile! Tanto quanto il sassofonista Oskar che si impegna in balletti e movenze da super sfranta, spettacolo!
– Turnstile: americani, hardcore punk. Mischiano un po’ di stili tra di loro, ci ricordano Limp Bizkit e Offspring. Ma l’insieme funziona maledettamente bene. Il pubblico è molto gasato, loro pure. Bel live, bella potenza.
– Flavien Berger: ho pensato “il solito francesino che fa elettronica”.. invece no! Cioè, elettronica sì, ma con un certo spessore, riesce a creare universi onirici. Non per questo definisce la sua musica “science-fiction”. Vale veramente uno stop di mezz’oretta, dopo un deludente live delle Boygenius, salvato solo dall’apparizione fugace del matto dei Viagraboys.
– Fever Ray è un essere magico, ipnotico che balla divinamente con un ghigno diabolico stampato in faccia.
– I Placebo sono ancora fantastici. Ovviamente, sull’onda del revival iniziato da Stranger Things, hanno fatto la loro versione di Running up that Hill, ma, non contenti di fare solo una cover, ci hanno sparato lì una credibilissima e godibilissima Shout dei Tears for Fears. Ma che fighi. Il Molko non proprio credibile nella sua mise da PiratiDeiCaraibi ma vabbè, è il Molko.

– Uzi Freyja: il sabato inizia con il botto sotto un sole che spacca, ma mai quanto lei. Fiera, sicura di sé, tiene il palco come se ci fosse nata sopra. Cosa fa? Boh, electro hip-hop? So che è una parigina, anglofona di origini camerunensi che non guarda in faccia a nessuno e ti sbatte inbella vista il suo stile e la sua musica, oltre alle sue enormi tette. Quanto mi è piaciuta!!!
– Chromeo: canadesi francofoni che, con 20 anni di carriera alle spalle, hanno affinato un’ottima tecnica. Fanno un elettro-funk credibilissimo e ascoltabilissimo, piacevole, leggero ma che ti affascina e ti fa rimanere lì ad ascoltarli. Non per altro hanno ricevuto una nomination ai Grammy!
– Poi ho incontrato i Coach Party, ci siamo fatti una bella chiacchierata (trovate QUI l’intervista), mi hanno spiegato quanto sia strano abitare sull’isola di Wight e quanto amino il caffè. Il loro live aveva qualcosa che mancava, o forse erano gli alti settati troppo alti che davano fastidio, ma sono bravi ‘sti ragazzi.
– Ho apprezzato gli outfit da personale di volo de L’Impératrice. E la loro crescita musicale rispetto ai dischi precedenti. La componente electro, da elemento centrale, ha assunto un ruolo di abbellimento, con tenui tocchi di sintetizzatori suonati qua e là, mentre è venuta fuori la loro anima funk, esplicitata dalla classe e dal tocco del bassista David Gaugé, da incastri ritmici di batteria meno prevedibili e da un generale interplay tra gli strumenti fantasioso, capace di tenere alta l’attenzione anche nei break strumentali. La voce sommessa e non troppo peculiare di Flore Benguigui guadagna decisamente in vivacità rispetto al passato.
– Mi sono innamorata nuovamente di Tamino. L’avevo già visto al Rock en Seine (soono avanti loro!) nel 2018 e, quest’anno, l’ho ritrovato più maturo, più potente, più emozionante e più figo. Chi è Tamino? Belga ma di origini egiziane. Lui bellissimo, genere Louis Garrel ma con una pelle del colore del the, non per altro è anche un modello. Serge Gainsbourg, Tom Waits, Uum Kalthoum, Jeff Buckley e Ben Howard sono la sua ispirazione. Tamino canalizza il proprio lignaggio nella grande tradizione della musica folk-rock, in questo caso traendo spunto sia da radici d’estrazione mediorientale che da quelle europee, cantando mistero e meraviglia, romanticismo e resa, preoccupazione e speranza, con una voce unica tanto forte quanto delicata, che lo ha spesso trainato a illustri paragoni come quello con Buckley. Da seguire.
– Yeah Yeah Yeahs. Che dire? C’è qualcosa da dire? Karen O è stupenda, magica, una piccola bambola voodoo che, con il suo ghigno inquietante e tenerissimo allo stesso tempo, strega tutto il pubblico, ci fa impazzire, saltare all’unisono e cantare a squarciagola. Un live epocale. La Karen non ne sbaglia mai una!
– I Chemical Brothers sono una sicurezza quando si parla di musica dance/elettronica. Sono veramente veramente cotta dalla giornata ma, i loro visuals ipnotici, luci spaziali, due mega robottoni sul palco e canzoni come Hey Boy Hey Girl o Eve of Destruction mi impediscono di gettare la spugna e trascinarmi a letto.

– Ho iniziato la giornata di domenica con Jan Verstraeten, un bellissimo topolino rosa che suonava il piano(rosa) seduto su un alpaca. Verstraeten ha raccolto influenze da destra e da sinistra. “Durante il lockdown ho guardato tutti i film sulla mafia su Netflix, è da lì che provengono le influenze soul. Ho avuto un momento di triphop e da lì ho preso i ritmi e gli archi in stile Portishead. C’è anche un po’ di Moby lì dentro, da qualche parte”. Non lo conoscevo. Una scoperta fantastica! Grazie Rock en Seine…
– Nova Twins. Le conoscevo grazie al loro remix di Unholy di Sam Smith e perché, lo scorso anno a maggio, avevano aperto il concerto di Yungblud al Carroponte di Sesto. Ma che BRAVISSIMISSIME. Hanno gasato tantissimo, è difficile vedere sul palco due ragazze così giovani con così tanta carica, tecnica, cattiveria e determinazione. Mi hanno trasmesso un’onda di puro rock pesante, solido e credibilissimo.
– Ho scoperto Gaz Coombes: lo conoscevo come Supergrass, ma non avevo mai ascoltato nulla di quello che ha fatto al di fuori del gruppo. Beh. Da cazzone qual era, oggi Coombes è divenuto un musicista maturo, che, disco dopo disco, ha acquisito una consapevolezza e uno stile personalissimo.Elettronica calda, un pizzico di soul, palpiti notturni, soundscapes in chiaroscuro, barbagli misurati di rock (l’incedere ansiogeno e le chitarre di Deep Pockets) e tante, tante idee. Echi di Black Rebel Motorcycle Club, di Daft Punk e una sorta di semplificazione concettuale di quello che i Radiohead fanno da tempo sono citazioni che la bella voce di Coombes riveste di nostalgica familiarità. Tanto da costringermi ad ascoltarlo compulsivamente mossa da sincera e irrefrenabile brama.
– Qui il dublinese James McGovern sale sul palco con degli improponibili occhiali da sole e una camicia rosa. Ma alla fine chissene, i The Murder Capital possono vestirsi come vogliono fintanto che riescono a farci ballare con il loro post punk, un po’ sulla linea dei concittadini Fontaines D.C. Batteria compulsiva, un tocco ben studiato di elettronica, voce con quel qualcosa di nostalgico che (non chiedetemi perché) mi ricorda un po’ quella di Ian Curtis.
– Poi è arrivata la follia pura incarnata in una bella biondina con un outfit in lurex alla Jane Fonda in pieni anni ’80. Amyl and the Sniffers. Pensavo che il suo stranissimo balletto concettuale fosse legato solamente al video di Security, e invece no.Un’ora di live, carico, nervoso, energico, divertente e… sempre con la lingua fuori, letteralmente. Vale la pena vederli dal vivo.
– Devo dire che le Wet Leg non mi sono piaciute? Quest’aria da Quacchera indie non mi ha convinta per nulla, le ho classificate come “troppo indie anche per i miei gusti”.
– Pioggia, tanta tanta tanta pioggia ha accolto il live dei Foals, che non hanno fatto un plissé e hanno suonato egregiamente. Yannis, ovviamente, sfoggiava una delle sue improbabili camicie hawaiane, e, sudato come non ci fosse un domani, aizzava il pubblico, urlando in piedi sulle transenne davanti al palco. Molto bravi.
– E sono arrivata alla fine. Ultimo gruppo di questa ventesima edizione del Rock en Seine. Si chiude in bellezza con niente popò di meno che gli STROKES! Mi hanno riportata indietro di 10 anni abbondanti con il loro repertorio. Reptilia mi ha catapultata sulla pista del London Loves al Plastic, e non ne hanno sbagliata nemmeno una. Ci hanno fatto emozionare con Ode to the Mets, ballare con Someday e cantare a squarciagola con Is This It? Ok, lui antipatico come pochi, è arrivato sul palco, ha fatto quello che doveva fare e via. Ma l’ha fatto dannatamente bene.

Ecco. Questo è il mio punto di vista sulla ventesima edizione del Rock en Seine. Posso dirvi, ancora una volta, che vale veramente la pena programmare una 4 giorni Parigina a fine agosto. Il festival è bene organizzato, è in un parco immenso, offre mille mila servizi e comodità che noi (in Italia) manco ce li sogniamo, e ha delle line-up pazzesche!!!

Rimanete sul chi-va-là, controllate spesso il loro sito rockenseine.com e il loro profilo Instagram @Rockenseine in attesa che dicano quando e chi ci sarà l’anno prossimo, in odore di Olimpiadi.

À l’année prochaine…


Live Report e Foto a cura di Gaia Negroni