Sarà perché tra un mese esatto mi trasferisco a Roma, sarà perché la prima volta che li ho sentiti hanno fatto da cornice a un romantico limone, sarà perché per me essere single a 32 anni (leggi vedova) vuol dire accondiscendere di buon grado a rigurgiti adolescenziali senza l’ombra di senso di colpa… Sta di fatto che il live di ieri sera al Magnolia di Carl Brave e Franco 126 è stato come tuffarsi in un piscina gelida durante quei pomeriggi di caldazza che vorresti solo mettere la testa nel refrigeratore. Una vera goduria rigenerante per le mie orecchie, ormai stanche delle chitarrine lamentose e scordate tipiche dell’indie-rock/pop italico degli ultimi tempi.

Se sto scrivendo questo report devo quindi ringraziare in primis chi me li ha fatti scoprire, ovvero il protagonista del sopracitato romantico limone, un affascinante e cerebrale cultore di ogni genere di sonorità, che mi ha consigliato di dare una chance all’ascolto dei nostri eroi, al netto del vocoder e degli adolescenzialismi di cui sopra. Poco importa che la liason si sia trasformata nel giro di qualche giorno in poco piacevoli bisticci notturni conditi da secchiate di drama, causa della brusca interruzione di qualsivoglia parentesi rosa. Sta di fatto che da allora il mio Daily Mix di Spotify mi ripropone almeno settimanalmente la manciata di canzoni, o meglio “Polaroid” per stessa definizione degli autori, uscite per Bomba Dischi (vedi Calcutta) ad aprile di quest’anno.

Pezzi freschi, leggeri, squisitamente pop in questo senso, ma intrisi di una malinconia agrodolce, che dimostra una raffinatezza non indifferente nella scrittura dei testi, degni eredi dalla miglior vena cantautorale italiana, e una ricerca musicale non comune nelle basi, negli arrangiamenti e nella confezione generale del dischetto. Una piccola perla che ha impreziosito la mia collezione di nuove scoperte del 2017.

Sono dunque arrivata ai giorni nostri, e più precisamente al concerto di ieri, con una serie di domande esistenziali parecchio perniciose: sopravviverò al vocoder dal vivo? Troverò un altro romantico limone sotto al palco travestito da mentore musicale? Riuscirò a fare amicizia con Carletto, per assicurarmi compagnia nelle mie future scorribande trasteverine? Di seguito le risposte elencate, manco a dirlo, nei canonici 7 punti a cui i miei pezzi vi hanno abituato.

#1 – Regà non ci crederete ma nessuna traccia del vocoder, nemmeno un piccolissimo accenno. Nulla di nulla. Un’assenza da sottobosco carsico, pari a quella dei risparmi sul mio Conto Arancio (a proposito: «A cosa serve il Conto Arancio se sta sempre in rosso?», cantano loro). Ulteriore graditissima sorpresa la presenza sul palco di chitarra, basso e batteria, che hanno dato un’impronta ancora più pop e melodica ai pezzi.

#2 – Come da copione ero nettamente la più vecchia, fatta eccezione per il mio fido accompagnatore, trascinato suo malgrado, ma che al terzo pezzo ha iniziato di nascosto a canticchiare i ritornelli. Durante la serata abbiamo incrociato sparuti trentenni e ci siamo scambiati sguardi da sopravvissuti che nemmeno i veterani al ritorno dal Vietnam.

#3 – La quantità di intervenuti nati dopo il 90 (che nella mia testa avranno per sempre meno di 10 anni, e nessuno mai mi convincerà del contrario), oltre a non avermi procurato nessun limone credibile, è stata di proporzioni tali da incutere quasi timore. Era già chiaro dalla coda che si snodava dal semaforo dell’Air Hotel fino alla rotonda di ingresso, ma raramente avevo visto tanta gente davanti al palco grande del Magnolia, nemmeno per le edizioni meglio riuscite del Miami. Nemmeno per i Baustelle al festival del risvoltino. Nemmeno per Peppino di Capri in piazza Plebiscito.

#4 – Sotto al palco si respirava un’aria da Curva Sud. La brufolosa folla animata da belle speranze cantava i pezzi a squarciagola, sottolineando le rime più azzeccate con braccia alzate al cielo e un’ombra di attitudine rissosa, probabilmente dettata da livelli di testosterone molto alti. Di contro il mood rilassato della love gang stemperava i cori con un’alternanza perfetta tra le hit più caciarone e brani più malinconici, magistralmente definiti dallo stesso Franchino “da pianterello”.

#5 – La gioia causata dalla mia imminente calata romana, nei panni di una lanzichenecca d’altri tempi, è stata supportata per tutto il concerto dalle espressioni e dalla parlata dei due, che mi hanno mandato letteralmente in solluchero. Tra queste la presenza di un ignoto “fettina”, probabilmente un musico o un fonico di palco, che ogni due per tre veniva interpellato con espressioni del tipo “Che dici fettì, annamo?”

#6 – Avendo a disposizione solo una decina di canzoni il concerto è stato breve, un’oretta o poco più. Questo non ha però impedito alla band di esibirsi in un bis, scandito al suono della miglior battuta di sempre per rientrare sul palco: “Scherzone!” La scaletta ha incluso praticamente tutti i brani di “Polaroid”, compresa una versione più dub e molto bella di Tararì Tararà e una doppia esecuzione di Noccioline. Uniche grandi assenti Barceloneta e Cheregazzina. Peccato!

#7 – Al termine del live, i ragazzi di “Fresh Prince Night” e “Wow” hanno dato vita a un djset godibilissimo, che ci ha fatto scatenare sulle note di Cypress Hill, 50 Cent, Tupac e altri pilastri del genere. Personalmente ho consumato il mio suicidio infrasettimanale decidendo di farmi un vodka tonic all’1.55 del mattino. Come sto oggi non c’è bisogno di spiegarlo, se non dicendo che “sono passata da fase REM a fase rom” (cit.)

In sostanza a chi ancora non si fosse convinto che è il caso di dare un ascolto alle istantanee scattate con molta sincerità e parecchio gusto dal duo rap trasteverino, potrei suggerire che non è sempre il caso di scatarrare sui giovani d’oggi (semi cit.) e che a volte l’ispirazione può trasformare dei racconti di vita che sembrerebbero distanti in qualcosa in cui comunque riconoscersi e che fa vibrare in modo delicato ma profondo le nostre corde interiori.
Non so voi, ma io “pellaria” ci sto ancora parecchio.

La Vedova Tizzini