Milano, venerdì 30 novembre

Prendiamola alla larga. Correva l’anno 2001, un amico si presentò fuori dal pub dignitosamente brillo. Lo ricordo ancora molto bene: aveva la frangetta alla Liam Gallagher e l’occhio a mezz’asta in segno di sconfitta. La lucidità, però, non gli mancava mai. All’improvviso guardò tutti con disprezzo e pronunciò una frase che sapeva di monito per i posteri: «Basta con il brit-pop, ascoltate i Black Rebel Motorcycle Club». Silenzio. Qualcuno si nascose dietro l’ultima sorsata, qualcun altro si accese una sigaretta. Il primo disco era uscito da qualche settimana.

Da quella serata catartica è passato un sacco di tempo. Mai e poi mai avrei pensato di finire a dimenarmi sotto al palco del Fabrique sedici anni dopo quell’annuncio visionario. Eppure adesso sono qui, con un maglione nero al posto della felpa in acetato, ma con la testa ancorata a quel ricordo davanti al pub. A dire il vero, i primi due pezzi del concerto (il nuovo singolo Little Thing Gone Wild e Beat The Devil’s Tatoo) li ascolto dal fondo della sala. Scelta sbagliata. L’acustica, da qui, non rende giustizia alla potenza del terzetto americano. La batteria di Leah Shapiro, già di per sé fin troppo essenziale, sembra chiusa in una catacomba di via Mecenate. Decisamente meglio scalare qualche posizione in platea. Con un’incursione da terzinaccio di seconda categoria mi faccio spazio sulla sinistra. Ain’t No Easy Way mi spinge in avanti a colpi di armonica. Il solito siluro blues.

Da qui si può ricominciare. Tutto è più chiaro, più definito. Durante Berlin e Conscience Killer mi soffermo sui volti e le capigliature dei due frontman. Peter Hayes (camicia lunga nera e pantalone pure scuro) sembra invecchiato a velocità raddoppiata. La chioma riccia dei primi album, già abbandonata da tempo, ha fatto definitivamente spazio a una spianata grigia ripassata all’indietro. Ma la classe, si sa, non ha a che fare con i mutamenti tricotici. Quelle mani, oggi più che mai, possono essere ferro (Stop) e possono essere piuma (Haunt). 

Dall’altra parte del palco è schierato Robert Levon Been. A differenza del compare, è identico all’esordio. Con la stessa giacca di pelle e la posa da ventenne tenebroso. Da perfetto guerriero della notte, si lascia avvolgere dal fumo come in quei film horror anni ’80. Inquadratura dal basso, asfalto possibilmente bagnato, luce al neon alle spalle per stirare l’ombra fino a sfiorare lo spettatore. Ma anziché la mazza chiodata, il nostro Been sfodera il basso per disegnare linee sempre taglienti ed efficaci. Una meraviglia.

Tra le specialità della casa, ma non è una novità, c’è anche la versatilità dei due leader, che si alternano agli strumenti e alla voce senza il minimo calo di tensione. Nel frattempo guadagno le prime file, la mia visione non è più d’insieme, ma mirata. Decido di fissare lo sguardo su Hayes quando canta Been, e viceversa. Un giochino che mi diverte. Nella fase centrale del live, però, i due si ritagliano uno spazio privato a testa. Parte Been con una versione acustica di The Line. Lui da solo seduto sul bordo del palco. Il Fabrique diventa piccolo piccolo, come la mia cameretta ai tempi dei primi due dischi. Poi è la volta di Hayes, che resta in piedi per una versione struggente di Devil’s Waitin’.

Poi la band di San Francisco torna a innaffiare il pubblico con la miscela di garage e hard-blues che l’ha resa famosa. Love Burns e 666 Conducer riaccendono gli animi più infuocati. Il mio maglione nero si rivela meno traspirante della felpa in acetato che fu. Soprattutto quando attaccano con Six Barrel Shotgun e Spread Your Love, che da sole basterebbero a spazzare via una decina d’anni di tentativi di emulazione. Il resto è più che prevedibile: ritirata dietro il palco, ritorno con Red Eyes and Tears e gran finale con Robert Been sdraiato sul pubblico a cantare Whatever Happen To My Rock’n’Roll.

Quando tutto è finito, l’impressione non è quella di essere stati a un raduno di nostalgici. Certo, l’ammucchiata di brani tratti dalla prima parte della carriera ha fatto la differenza. Ma la sensazione è che i Black Rebel Motorcycle Club abbiano ancora qualcosa da dire. Tra i pionieri del revival americano dei primi Duemila, sono certamente i più longevi e lontani dalle insidie anagrafiche. Tanto per intenderci, un concerto degli Strokes nel 2018, per quanto esaltante, avrebbe un retrogusto stantio che il sound dei Black Rebel non assumerà mai. È il segreto del blues, la sua carica dirompente, la sua natura immortale. Quella forza magica che forse aveva avvertito anche il mio amico davanti al pub. La stessa che quella sera, per fortuna, mi portò a rispondergli nel modo corretto: «Va bene, li ascolterò».

Paolo Ferrari