Questa non è un’intervista. O meglio, non doveva esserlo. Nelle intenzioni iniziali era soltanto una cena tra amici. Ma a tavola era seduto anche Pietro Paletti, fresco dell’uscita del suo nuovo disco, “Super”. La serata si è così trasformata in una bella chiacchierata sul suo album e sulla sua vita. Un intenso scambio di riflessioni, che abbiamo deciso di raccontarvi così come è nato. Alla cena, oltre a Paletti, hanno partecipato Gaetano Polignano, Valentina Castellani, Cinzia Zanette, Matteo Griziotti e naturalmente noi di indie-zone.it, ovvero Paolo Ferrari e Giulia Zanichelli. Buona lettura.
A cura di Paolo Ferrari
Capitolo 1: Un’onesta raclette
Sul tavolo in salotto c’è una piastra elettrica di pietra ollare, credo si dica così. Mi hanno spiegato che sopra la piastra ci devo mettere la carne. Sotto, invece, vanno infilati dei piccoli pezzi di formaggio. Si chiama raclette, è un piatto francese: quando tutto è pronto, rovesci il formaggio sulla carne e buon appetito. Intorno al tavolo ci sono sette amici pronti a divorare questo ben di dio. Mi si conceda dunque una breve presentazione, giusto per non perderci. Di fronte a me ci sono Giulia, Cinzia e Matteo. Alla mia destra Valentina e Gaetano. Ma soprattutto, nell’angolino in fondo, è seduto Pietro Paletti, montatura spessa e felpone da battaglia. Pietro ha da poco pubblicato il suo nuovo album, “Super”, uscito per Woodworm il 21 gennaio. Il disco, nel senso del cd, troneggia in tavola appoggiato a una bottiglia di vino valtellinese. «Oh, non chiedetemi perché si intitola Super», dice Paletti sorridendo. E proprio da questa sua provocazione nasce la prima domanda sul suo nuovo lavoro.
A rompere il ghiaccio è Giulia (autrice della recensione del disco), che vuole sapere da quali esigenze sia nata l’idea di pubblicare questo nuovo album. «Il disco nasce dalla voglia di suonare in giro e di esorcizzare le mie menate», risponde Paletti. E quali sarebbero queste menate? «Ti spiego – precisa – Da quando è arrivato mio figlio è come se avessi saltato una staccionata. Non posso e non voglio più essere quello che ero prima. Questo cambiamento è stato come un terremoto per me, mi ha diviso tantissimo. Mi ha portato verso l’età adulta e contemporaneamente a voler seguire una certa strada dal punto di vista musicale, accorpando entrambe le cose: cioè progredire come essere umano e allo stesso tempo mantenere una certa spontaneità. Il disco precedente non era molto spontaneo. Aveva altri pregi, per esempio la sperimentazione. “Super”, invece, è spontaneo. Ogni pezzo è stato scritto in dieci minuti. Sono canzoni che, per così dire, non ho neanche scritto io. Io sono stato un tramite. In certi brani ci sono cose che probabilmente capirò fra qualche mese».
Capitolo 2: Manerbio – Corinthians 1-1
Pietro Paletti è un ragazzo di provincia. Ha 37 anni ed è cresciuto a Manerbio, nel Bresciano. Appena maggiorenne si è trasferito a Londra, dove ha studiato sound design. Le origini, però, fanno saldamente parte della sua personalità, schietta e sincera come in pochi altri artisti. Prima che accendessimo i microfoni (si fa per dire), la raclette è stata accompagnata da diversi ricordi personali legati proprio a Manerbio. Per questo ho voluto chiedergli quanto la provincia abbia influito nel suo processo creativo e nella sua poetica. «Quando il processo creativo è sincero – mi ha risposto – tutto quello che vivi fin dal giorno in cui nasci può confluire nel tuo lavoro. In questo disco, in realtà, hanno influito più che altro gli ultimi quattro anni, che ho vissuto a Brescia. Ma creativamente parlando, cerco sempre di restare giovane, e quindi ingenuo nella scrittura. E poi nel disco c’è anche mio padre». Tuo padre? «Sì, mio padre ha influito nella scelta della copertina». Per chi non lo sapesse, l’uomo ritratto sulla copertina di “Super” è Socrates, storico calciatore brasiliano che negli anni ’80 militò nel Corinthians. Nell’immagine, Socrates tiene il pugno chiuso alzato. «Quando avevo 8 anni mio padre mi parlò di lui. Mi disse: “Guarda che questo non è solo un calciatore”. Socrates è stata una persona che ha dato tanto per la gente del Brasile. Se il Brasile è diventato una democrazia, buona parte del merito va proprio a lui. Era un personaggio di spicco, un influencer dell’epoca. Era un medico, un bohemien, un artista e un politico. Uno che ha parlato allo stadio davanti a migliaia di persone e ha risvegliato le coscienze. Nella sua squadra tutto veniva deciso ai voti, dall’acquisto di un giocatore alle soste del pullman durante le trasferte».
«E tu, Paletti, cosa vuoi dire alla musica nei panni di Socrates?», chiede Valentina. «Beh, Socrates aveva un sacco di contraddizioni – spiega Paletti – faceva una vita sregolata ed è morto di cirrosi epatica perché si beveva le birrette (risate, ndr.). Come lui, anche questo disco contiene un sacco di contraddizioni. Una canzone ti dice una cosa, la canzone dopo ti dice l’esatto opposto. Racconta esattamente come sono io: un turbillon di contraddizioni. Per anni per me è stato difficile convivere con tutto questo. Adesso invece accetto di essere una cosa e il contrario della stessa, e finalmente posso esprimerlo con serenità. Socrates è morto con le stesse contraddizioni, ma con il pugno alzato. “Super” è l’orgoglio di mostrarsi per quello che si è, nonostante tutto». E così Paletti ci ha detto cosa si intende per “Super”.
Capitolo 3: Mi sfila un pop
Fin dall’età di 6 anni, Paletti suona la tromba e la chitarra. Ma il suo strumento per eccellenza è sempre stato il basso. Lo sa bene Matteo, anche lui musicista e titolare del progetto The Lonely Rat. Il tempo di una sigaretta e Matteo incalza Paletti proprio su questo tema: «Pietro, ti ho sempre visto come un bassista illuminato, un musicista che ha anche la visione della canzone. La tua carriera ha avuto un’evoluzione molto pop, come lo è stato per Max Gazzè, un altro bassista. Quanto il pop ti sta stretto e quanto ti gasa? Quanto è una virtù e quanto un’àncora?». «Sì, in me c’è questa dicotomia – risponde Paletti – Da quando ho iniziato a cantare in italiano ho dovuto in un certo senso uniformarmi. Se fossi rimasto granitico nelle mie idee, probabilmente non avrei fatto un disco così. Però il pop a me piace. Credo di essere figlio del pop, nel senso che lo vesto bene e non me ne vergogno. Anche in questo genere aspiro sempre a dare dei contenuti».
Quindi un po’ di testa c’è sempre? «Sì, c’è sempre. Ma non nel primo flusso, in cui al contrario cerco di staccare la testa a favore di un avanzamento del corpo e dei sentimenti. Poi, quando ho la scrittura dei testi pronta, allora lavoro di testa. Penso a sistemare la struttura, il ritornello. Per me un esempio importante di pop è Franco Battiato. “La voce del padrone” è un disco estremamente pop, però nei suoi testi e nella musica, se uno è predisposto ad accoglierli, ci sono un sacco di concetti».
Capitolo 4: Avanti un indie
Prima di avviare la sua carriera solista, il nostro Paletti, proprio come bassista, ha girato mezzo mondo con i The R’s (The Record’s). Il batterista della band era Gaetano, che oggi fa parte dei Verano. Da amico e compagno di tante avventure, Gaetano stuzzica Paletti chiedendogli di astrarsi per un attimo dalla dimensione artistica: «Pietro, tu sei nato come artista indipendente, poi sei passato alla Sugar e infine sei tornato indipendente. Come vedi la tua carriera in termini di business?». Domanda difficile, difficilissima. Paletti si prende una pausa, mentre io e Matteo piazziamo due peperoni sulla piastra. Silenzio in sala, arriva la risposta: «Dunque, in passato sarei potuto essere più maturo». Ti sei fatto abbagliare? «No, anzi, più che furbo ho cercato di essere coerente con me stesso. So però di dover essere completo, ma di solito questo aspetto lo delego ad altri. Credo che le mie scelte alla fine premieranno. Se arriva il grande successo bene, altrimenti io resto puro con me stesso». Gli chiedo: «Pensi di aver perso un’occasione?». «No, non ho rimpianti – dice – Quando ho fatto il provino per Sanremo Giovani (nel 2014, ndr.), sono arrivato alle fasi finali, ma non sono passato. In quell’occasione credo di essermi auto-sabotato». «E adesso? Con Woodworm?», prosegue Gaetano. «Woodworm è un’etichetta indipendente, ma molto attenta. C’è un rapporto umano, i ragazzi di Woodworm sono ragazzi come noi, mentre con Sugar non c’era questo tipo di rapporto. Mi hanno accolto nella loro famiglia, e questo alla fine premia».
Capitolo 5: Centro di gravità almeno momentanea (cit.)
Siamo alle battute finali. La piastra di pietra ollare si è spenta, ma non gli animi dei commensali. La chiusura spetta a Cinzia, che ha partecipato con attenzione a tutta la chiacchierata: «Pietro, il tuo sogno di musicista è quello di parlare alla tua generazione o ti piacerebbe arrivare ai giovani di oggi, che a quanto pare sono le persone più attratte dalla sincerità di intenti?». Paletti risponde sincero: «Non ho mai fatto questi pensieri. Vorrei che il mio disco venga ascoltato anche da chi non ha voglia di entrare nei testi e scervellarsi come faccio io. È quello che dicevo su Battiato: il ritornello di Centro di gravità permanente può essere ascoltato da chi vuole solo ballare e cantare, ma anche da chi ragiona sul testo. Voglio cercare di essere pop, di arrivare a tutti. Poi chi vuole scavare scavi, magari ci trova qualcosa di interessante. Ma non mi importa se viene fatto oppure no, perché io non ho creato barriere. Certo, se devo essere onesto, mi piacerebbe andare in radio». «E se dovessi scegliere una canzone per tuo figlio – chiosa Cinzia – ne sceglieresti una tua o quella di un altro?». «Una mia, si chiama Eneide… e adesso ve la suono». La cena si è conclusa così, con il video che pubblichiamo qui sotto. Poi la serata è proseguita, siamo andati a sentirci un concerto. Ma questo non c’entra niente.
Mi racconto in una frase
Famelica divoratrice di musica e patatine (forse più di patatine), diversamente social e affetta dalla sindrome di “ansia da perdita” (di treno, chiavi di casa, memoria
e affini).
I miei 3 locali preferiti per ascoltare musica
Auditorium Parco della Musica (Roma), Locomotiv Club (Bologna), Circolo Ohibò (Milano).
Il primo disco che ho comprato
“Squérez?” dei Lunapop, a 10 anni. O forse era una cassetta.
Comunque, li ho entrambi.
Il primo disco che avrei voluto comprare
“Rubber Soul” dei Beatles.
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso
Porto avanti con determinazione la lotta per la sopravvivenza della varietà linguistica legata alla pasta fresca
emiliana: NON si chiama tutto “ravioli”, fyi.