Andrea Poggio, per chi ancora non lo conoscesse, è un cantautore e musicista che già da diverso tempo è protagonista nel mondo della musica indipendente. Abbandonati i panni del leader dei Green Like July, l’artista piemontese ha pubblicato nel 2017 il suo primo album solista, “Controluce”, uscito per La Tempesta Dischi. Il disco (qui la nostra recensione) ha già ottenuto un ottimo riscontro di pubblico e critica, e ha già portato Andrea su alcuni dei più importanti palchi italiani (il prossimo appuntamento è quello di venerdì 16 febbraio alla Santeria Social Club di Milano per il Mi Ami Ora). Abbiamo fatto una lunga e interessante chiacchierata con lui. Ecco cosa ci ha detto.

 

A cura di Alessandro Scotti

 

Partiamo dalla maggiore novità del tuo nuovo debutto: cosa vuol dire per te cantare in italiano? Che impatto ha avuto sulla tua musica?

Cantare in italiano ti impone scelte ritmiche e fonetiche ben precise, impone pause e chiusure molto diverse dall’inglese. Quindi ha sicuramente avuto un forte impatto su “Controluce”.

L’uso della lingua ha avuto un impatto anche sui testi?

I Green Like July sono un gruppo che è nato quando avevo vent’anni. Soprattutto nei testi dei primi due dischi, sono confluite tutta una serie di tematiche forse un po’ ingenue e proprie di quell’età di transizione, che certamente hanno trovato nell’inglese un terreno fertile in cui affondare le proprie radici. Certe cose che cantavo con i Green Like July, già allora, ero consapevole che non sarei riuscito a cantarle in italiano. È come se l’inglese mi permettesse di indossare una maschera e mi aiutasse a non prendermi troppo sul serio. Quando ho iniziato a scrivere in italiano è venuto fuori quello che sono veramente, e cioè un piemontese schivo e introverso. Com’è naturale che sia, se ci pensi le cose che canta Venditti, Paolo Conte non le canterebbe mai.

A tal proposito, visto che hai citato altri autori, chi ti ha ispirato per il tuo primo disco in italiano? Quali autori hai scelto come punto di riferimento?

Dopo anni di ascolti focalizzati su sonorità di matrice americana e anglosassone, la scelta della lingua ha significato anche un ritorno sui banchi di scuola. Ho riascoltato autori che magari frequentavo da ragazzo e ne ho scoperti di nuovi. Ho cercato di capire perché alcuni autori mi piacessero ed altri no, ho cercato di creare una sorta di gerarchia delle fonti. Al cui vertice c’è senza dubbio De André, che è un punto di riferimento essenziale ed imprescindibile, perché, come diceva Fernanda Pivano, “quando canta vola” e le sue immagini sono sempre al di sopra del mondo. Piero Ciampi, al contrario, crea immagini partendo dalla vita reale, parla di cose terrene e terribili, si muove nella disperazione del quotidiano. Ecco, Ciampi è un altro ascolto dal quale non si può prescindere.

Hai anche scartato degli autori?

Con grande umiltà posso dirti che alcuni autori li sento più distanti dal mio modo di scrivere. De Gregori ne è forse un esempio. Può sembrare assurdo, ma mi sento molto più vicino al Califano che va “randagio in quarche vicoletto” piuttosto che al De Gregori che “vola in cielo in carne ed ossa”. Poi ci sono autori che mi piacciono moltissimo, come Ivan Graziani, ma che scrivono in un modo così peculiare e personale… un pezzo come Il prete di Anghiari non potrebbe essere cantato da nessun altro.

E il cantautorato rock italiano? Rino Gaetano e Vasco Rossi?

Musicalmente sono nato e cresciuto negli anni Novanta. Quelli erano anni in cui si doveva aver ben chiaro quali fossero i propri nemici e Vasco era certamente uno di questi. Vasco Rossi, dagli anni Novanta in poi, ha scritto delle cose terribili e francamente non capisco proprio come si possa giustificarlo o rivalutarlo. Ad ogni modo, forse è un’ostilità che va ben oltre il lato musicale, e che prende Vasco e il suo pubblico, che è quanto di più distante ci possa essere dalla musica. O, meglio, dalla musica come la intendo io.

La copertina di “Controluce”

In ogni caso escludi un ritorno al folk a stelle e strisce, all’inglese e alla dimensione gruppo? Oppure non ti dai limiti o non lo escludi?

No, in questo momento mi stento di escluderlo completamente. Già durante le date successive all’uscita di “Build a Fire” mi stavo accorgendo che con i Green Like July eravamo arrivati al capolinea, quel metodo di lavoro non mi dava più stimoli e stava diventando un limite alla mia creatività. Parallelamente stavo iniziando a scrivere i brani al computer, quindi ad arrangiarli direttamente in fase di scrittura, stavo uscendo definitivamente da quella logica da sala prove, dal limite che ti impone il dover lavorare un brano partendo necessariamente dalla batteria e dal basso perché i tuoi compagni di gruppo sono, appunto, un batterista e un bassista. Devo dirti la verità, per quanto fossi umanamente legato ai Green Like July, è stata una vera liberazione.

Una cosa che mi ha colpito in “Controluce”, a proposito del cambio di stile che ha avuto la tua musica, è un uso dei fiati per nulla da black music. Intendo dire che invece di sax o tromba, sento piuttosto l’oboe nelle tracce della raccolta, concordi?

Sono d’accordo, il risultato finale può far pensare più a certo pop barocco o alla musica minimale, piuttosto che al soul. Forse una delle ragioni è che molte delle parti di fiati sono state scritte e arrangiate su GarageBand, quindi molti dei fiati che ascolti sul disco nascono come fiati finti o, addirittura, sono fiati finti.

Nonostante questo, il tuo esordio solista mi sembra per molti versi l’evoluzione dell’ultimo disco dei Green Like July, cosa ne pensi?

Penso che “Controluce” porti a livelli estremi certe scelte di arrangiamento già presenti in “Build a Fire”, che è il terzo ed ultimo disco dei Green Like July. Mi stupisce infatti che molti abbiano trovato “Controluce” così diverso, quando invece di punti di tangenza ce ne sono parecchi. La vera differenza è che ora l’arrangiamento è protagonista, proprio perché, o anche perché, è cambiato il mio modo di lavorare, ovvero le canzoni sono nate in solitudine e non con il contributo fondamentale del gruppo, di una batteria, di un basso e di una chitarra. Con i Green Like July gli arrangiamenti venivano decisi all’ultimo, spesso in studio. In “Controluce” si sono definiti progressivamente, già in fase di scrittura.

Controluce” è un disco difficile? Suona progressive?

A me francamente non sembra di aver fatto nulla di particolarmente azzardato. Anzi, a tratti, mi sembra di aver osato troppo poco. Se prendiamo ad esempio canzoni come Miraggi metropolitani o L’autostrada, mi chiedo dove stia la difficoltà nell’ascolto, sono canzoni con una strofa e un ritornello, meno di così… La verità è che siamo abituati male, se il metro di paragone è quello che passa RTL, allora forse sì, “Controluce” è un disco progressive.

Dal vivo come proponi i pezzi? Suonerai anche qualche brano dei Green Like July?

Siamo in quattro: Yoko Morimyo al violino, Gak Sato alle tastiere e Caterina Sforza ai cori. Suoniamo soltanto i brani del disco e qualche cover, al momento non ci sono pezzi nuovi. E, no, non suonerò brani dei Green Like July.

Quindi non tornerai all’inglese per un po’?

Mi risulta davvero difficile pensare di tornare indietro. Per la prima volta riesco ad avere una piena padronanza del mezzo espressivo con cui scrivo i testi delle mie canzoni, in questo momento mi sembrano frivole le motivazioni estetiche che, per tanti anni, mi hanno portato a scrivere in inglese.

E di un uso della voce diciamo sperimentale? Alla Yoko Ono o alla Demetrio Stratos?

Perché no (ride, ndr), non lo escludo, ma devo dire che è un progetto a cui non ho mai pensato. In ogni caso con il tempo ho capito che la voce è uno strumento molto delicato, che per anni ho usato male o, quantomeno, senza conoscerlo. Oggi cerco di cantare tutti i giorni, insomma tra me e Demetrio Stratos ci sono ancora distanze siderali.

Controluce” è un disco digitale ma senza texture elettronica, hai intenzione in futuro di usare quel tipo di suono per la tua musica?

Per farlo dovrei trovare un produttore adatto. Mi piacciono molto certi suoni e certe produzioni, soprattutto provenienti dall’ambito hip hop. Il fatto è che io sono un musicista con una formazione diversa, per poter pensare di andare in una simile direzione, dovrei prima trovare le persone giuste. Ok fare To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar, ma prima devo trovare Dr. Dre e Pharrell Williams (ride, ndr).

Prima parlavamo di De André, un grande autore che ha sempre avuto l’umiltà di cercarsi collaboratori nuovi per sondare ambiti diversi, cosa ne pensi? è un metodo che seguirai?

Sicuramente, la scelta delle persone da coinvolgere nell’arrangiamento e nella registrazione di un disco è un aspetto fondamentale. Una volta terminato il processo di scrittura mi piace pensare che il mio lavoro diventi in parte simile a quello di un regista o di un allenatore sportivo. È importante scegliere persone che condividano la tua visione, ma non solo, che siano in grado di arricchirla o addirittura di ampliarla.

Questo modo di lavorare molto strutturato vuol dire che l’improvvisazione non avrà mai un grosso ruolo nella tua musica?

Di certo in questo disco non c’è stato molto spazio per l’improvvisazione. Quasi nulla di quanto ho registrato è stato improvvisato in studio. In ogni caso anche qui bisogna intendersi: ci vuole sempre e comunque una distribuzione dei ruoli. Quando si è parte di una band spesso questa cosa deve essere lungamente negoziata, se lavori da solo il processo di definizione su chi fa cosa è più snello. Ad esempio in “Controluce” Enrico Gabrielli ha avuto il compito, se non di improvvisare, certamente di cercare di movimentare le griglie che avevo minuziosamente, e a volte forse un po’ ottusamente, definito nei mesi passati a scrivere il disco.

Hai mai pensato, data la svolta impressa alla tua proposta musicale, di provare anche a partecipare a grossi eventi dedicati alla musica italiana, anche a Sanremo?

No, non ci ho mai pensato, non mi sento di escluderlo in assoluto, ma di certo nulla di quanto ho fatto finora è stato fatto con quell’obiettivo. Ho sempre pensato che le classifiche, i podi e le premiazioni non abbiano niente a che fare con la musica e che andrebbero lasciate al mondo dello sport. Mentre, al contrario, penso che il continuo confronto con altri musicisti sia una cosa molto importante e, a volte, proficua.

E tra gli autori oggi attivi? Chi ti piace? Chi ascolti?

Mi piace molto David Longstreth e i Dirty Projectors, Joanna Newsom e St. Vincent, che continuo a trovare sempre molto interessante. Anche se, più vado avanti, più divento meno facilmente impressionabile. Magari mi capita di appassionarmi in modo passeggero al suono di un album, che ne so, di Princess Nokia, ma poi rinsavisco e torno ad approfondire i dischi di certi grandi autori del passato ai quali magari non ho dato la dovuta attenzione.

Come concili il tuo lavoro di musicista con quello di avvocato? Ti sei dato delle regole?

Il riscontro per la mia musica mi interessa e mi gratifica molto, ma per il momento preferisco avere anche un lavoro al di fuori di essa. In generale non mi piace l’idea di dover fare musica per vivere, perché mi porterebbe a fare tutta una serie di scelte che al momento non voglio fare. Non voglio scrivere brani per Noemi, preferisco essere il suo avvocato.

La professionalità è importante nel tuo lavoro di musicista? È come fare l’avvocato ma con strumenti diversi?

Penso che la professionalità sia fondamentale in qualsiasi mestiere. A maggior ragione in un ambito come quello musicale dove spesso si è circondati da gente che fa questo mestiere a livello poco più che amatoriale.

Quello che mi hai raccontato sul tuo modus operandi, sul tuo concetto di professionalità e su come certi autori, diciamo più schivi, ti siano più congeniali, mi fa pensare che tutte queste componenti si sentano molto nelle parole delle tue nuove canzoni, che davvero più che proporre una narrazione interiore con taglio esistenziale sono descrittivi e sobri, e personalmente li ho apprezzati molto per questo. La scelta di questo tipo di scrittura è voluto o no?

Mi fa molto piacere che i miei testi ti siano piaciuti. “Controluce” ha avuto una gestazione davvero lunga, di quasi quattro anni. Ho avuto molto tempo per meditare su quanto stessi scrivendo. Quindi sì, affermativo, è una scelta decisamente voluta.