Se il mondo intero da qualche giorno piange la scomparsa di Aretha Franklin, nella stessa settimana l’Italia ha dovuto dire addio a un gigante della sua musica: Claudio Lolli, scomparso a Bologna a 68 anni dopo un lungo periodo di malattia.
Claudio Lolli. Un nome che forse a molti dirá poco o niente. Eppure che meraviglia quei testi che, anche se scritti decenni fa, si sposano perfettamente alla realtà di oggi. Eppure che nostalgia di quella canzone cantautorale vera, autentica, piena, che era, è e sará sempre in grado di smuovere coscienze di intere generazioni.
Claudio Lolli è uno dei simboli di quello che oggi non c’è più, o quanto meno è davvero difficile trovare: quel fare musica per raccontare la realtá, per cercare di cambiarla, per denunciare, per urlare forte come bisogno di rivendicare libertá, giustizia, veritá e non alla ricerca di un sensazionalismo spesso fine a se stesso.
Claudio Lolli è un nome che ha il profumo verace e pungente delle osterie bolognesi, di quel mondo dove bastavano una chitarra, un foglio e una penna per mettere in poesia l’amore, certo, ma anche e soprattutto la disillusione, l’amarezza, l’inquietudine. Senza pensare ai carrozzoni, alle mode o ai modi.
Claudio Lolli scrisse di “zingari felici” (quanto fa scandalo e fastidio la felicitá?), aspettava Godot (staccandosi da Beckett per ambire invece all’azione come reazione alla perenne ricerca di “qualcosa”), pennelló con i colori piú belli l’amicizia per quel Michel in cui puoi riconoscerci chiunque, descrisse le strade disoccupate dai sogni, sbeffeggió la Cara, Piccola Borghesia della stessa famiglia in cui era nato.
Claudio Lolli pizzicava le corde di una chitarra e raccontava la vita in modo cosí magistrale da farti commuovere. Claudio Lolli preferì tenersi stretta fino alla pensione quella cattedra al liceo scientifico di Casalecchio, piuttosto che fare il musicista di professione. Ma fa quasi male, oggi, pensare che il vero e grande riconoscimento alla sua opera sconfinata è arrivato soltanto l’anno scorso, con l’attribuzione del Premio Tenco come disco dell’anno al suo ultimo disco ormai di sempre, “Il Grande Freddo”.
Claudio Lolli faceva della musica poesia, perché vedeva la poesia in tutto, in un vaso di fiori su un davanzale, come nel sorriso degli ultimi. Claudio Lolli fu definito il poeta del Movimento, ma rigettó sempre quell’etichetta, perché non è con i proclami o con gli status che diventi qualcuno, ma solo colpendo dritto allo stomaco, al cuore di chi ti ascolta. E Claudio Lolli questo ha fatto. Sempre. E forse persino inconsciamente.
Per questo Claudio Lolli è uno dei simboli di quella generazione destinata ormai per questioni anagrafiche a scomparire mano a mano dalla terra dei vivi, ma i cui frutti vivranno in eterno. Magia e potere della musica, il bene più prezioso da custodire. Quella generazione dove non si giocava al massacro gli uni contro gli altri a suon di numero di dischi venduti o spettatori paganti, ma si faceva il possibile per remare dalla stessa parte e riuscire a dare voce ai sentimenti di tutti. Quella generazione che chi aveva i mezzi per fare cultura (le major, tanto per dire) supportava, che la tv trasmetteva e che per circolare in radio si inventò quelle libere. Perché era urgente parlare, dire, fare. Quella generazione protagonista di una “rivoluzione” che oggi diamo per scontata, ma che all’epoca fu portata avanti con pacifica caparbietá, gioia e determinazione.
Quanto ne avremmo bisogno, oggi? Quanto? E invece non ci resta che crogiolarci in quello che ci è rimasto. Nostalgia? Sì, e chi se ne frega. È arte. È cultura. È bellezza. È la verità. Pura, a portata di tutti, immortale. Quanto ci mancherai, Claudio Lolli. Quanto ci manca, in questa epoca, la potenza di quelle parole in musica che forse non cambiano il mondo, ma di certo aprono la mente e il cuore. E rendono persone migliori.
«Le rivoluzioni finiscono, le storie d’amore no», disse in una delle ultime interviste. Aggiungendo anche che «nonostante i tempi, sono felice, perché la vita ci offre sempre nuove meraviglie».
Sí, mancherai Claudio. Non puoi nemmeno immaginare quanto.
Federica Artina

Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.