Scott McCaughey non è morto. Avrebbe potuto. Stroke Manor nel 2019 era un disco scritto mentre il suo cervello lottava per riannodare i fili tra parole e sinapsi – un collage di coscienza fratturata messo su vinile, una specie di White Album con emorragia cerebrale. Ma eccolo qui, vivo, lucido e probabilmente con ancora qualche neurone che balla da solo in un angolo. Ed è tornato con Oar On, Penelope!, un disco che non solo suona come un ritorno, ma come un pugno al cielo al grido di: “Sono ancora qui, stronzi!”

Questa volta McCaughey non è solo, non lo è mai stato davvero: con lui c’è l’immancabile Peter Buck – la chitarra a 12 corde più affidabile dai tempi in cui i Byrds facevano ancora girare teste – e una coorte di amici abbastanza varia da sembrare il backstage di un festival indie del 1996: Linda Pitmon, Kurt Bloch, Debbi Peterson delle Bangles (!), Patterson Hood, Spencer Tweedy… gente che sa come si fa, ma soprattutto gente che non ha nulla da dimostrare. Questo è il bello. Nessuno fa finta. Nessuno posa.

E poi c’è Ed Stasium, il mago dei Ramones e dei Talking Heads, a mixare il tutto come se stesse sintonizzando una radio cosmica a metà tra la AM di Lou Reed e l’FM di Big Star. Il risultato? Oar On, Penelope! suona come una vecchia Cadillac rattoppata che fila liscia su una strada polverosa nel deserto, con un impianto stereo miracolosamente perfetto. C’è sporcizia, ma anche brillantezza. C’è caos, ma anche struttura.

“Words & Birds” apre il disco come un calcio nella porta: è rock anni ’60 filtrato attraverso anni di disillusione, ma che ancora crede nel potere delle armonie vocali. “Death the Bludgeoner” è garage rock con un sorriso da jena: bastano tre accordi, un ritornello da urlare, e il mondo gira di nuovo. “I Don’t Want to Hate Anyone” è l’anti-invettiva perfetta, scritta da un uomo che ha conosciuto la vulnerabilità vera e ora preferisce abbracciare che combattere. Ma il pezzo che inchioda tutto è “The Garden of Arden”: fuzzbox, misticismo da bar, e un groove che sembra uscito da una jam tra i Kinks e i Dream Syndicate, ubriacati di nostalgia e vino californiano.

Eppure non è solo revivalismo. Oar On, Penelope! non è un disco che si limita a celebrare il passato. È un disco che ruba al passato per ridare senso al presente. C’è qualcosa di disperatamente umano in questi brani: l’ostinazione a continuare a creare, nonostante tutto. Anche i pezzi più minori, come “Bison Queen” o “We Shall Not Be Released”, brillano di una luce intermittente ma calda, come le insegne al neon fuori da un diner alle 3 di notte.

McCaughey non diventerà mai una star, e grazie al cielo per questo. È troppo strano, troppo onesto, troppo innamorato del suono imperfetto della sua voce quando s’incrina alla fine di una frase. Ma è un eroe per chi sa ancora trovare verità in tre minuti di rumore ben orchestrato. Oar On, Penelope! è un disco che suona come se il rock fosse ancora importante – non in senso epocale, ma nel senso personale, quotidiano, emotivo. Come una vecchia lettera d’amore mai spedita che ritrovi per caso in un cassetto e che ti fa piangere. O ridere. O entrambe le cose.

Quindi grazie Scott, per essere ancora qui. Perché a volte la sopravvivenza è già una forma di rock’n’roll.

 

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