m-i-a-aimClassica ormai come Madonna e Frank Sinatra, M.I.A. con questo suo quinto disco consolida il grime con l’etnica e la dance, e si gioca tutte le sue carte: il ritmo e il tono a volte sono da combat rock, e questo succede quando M.I.A. vuole giocare sul sicuro, altre invece sono rilassati, o forse affaticati come in una corsa nelle sabbie mobili, e non si sa se attribuirlo alla maturità o alla stanchezza o svogliatezza. C’è però che M.I.A., anche tirando uno sbadiglio tra una strofa e l’atra, fa ancora oggi più paura di molti artisti votati all’ipercinetica. E infine ci sono canzoni dove l’arrangiamento è decisamente patinato, da diva americana come ormai la nostra si può considerare. Insomma un disco uno e trino, come quelle divinità indiane che si muovevano in trio per la gioia o il terrore dei fedeli.

Tra le tracce più barricadere e terzomondiste possiamo mettere l’inziale “Borders”, ballata rap alla “Paper Planes”, anche se in questo caso più dominata dai chiaroscuri: la strofa è evocativa e praticamente fatta di suoni d’atmosfera, senza batteria, mentre il ritornello accelera e fa entrare le percussioni in pista. Anche “Go off” potrebbe finire tra i classici grime politici del suo canzoniere, ma qui con suoni quasi da tastiere prog, sognanti e dal ritmo vagamente cullante, nonostante i trucchetti kitsch sempre presenti, come il curry in certe pietanze e in certi take-away. E poi ci sono “A.M.P.”, disturbante e rapida come ai bei tempi, solo un po’ più bubblegum del solito come cantato, “Ali r u ok?”, esotica e minacciosa, un ipnotico loop indiano, un rap di strada dal tono disilluso ma non domo, e la paradigmatica “Visa”, un ritorno alle origini, con ritmi dispari dal sound bipolare e campioni di musica tradizionale indiana ad aprire le strofe.
Altrove, come anticipato, “AIM” si misura con una certa elegante psichedelia contemporanea, come in “Bird-song”, parodia spaghetti western, sonnolenta e afosa, e in “Jump in”, stordita e ipnotica, o in “Fly Pirate”, marchiata da una specie di scacciapensieri che va in loop e un ritmo groovy ma rilassato, con una sua pesantezza e un passo pacato ma inesorabile.
In alcune occasioni poi le canzoni si sbiancano e disidratano ulteriormente, fino ad echeggiare il synth pop, come in “Freedun” e “Survivor”. E infine ci sono gli assalti al cielo. “Foreign Friend” è da gran gala, versione chic del Wu Tang Clan, con voce maschile alla Barry White lontana ed echeggiante nel ritornello. “Finally” è una buona volta Byoncé che prova a fare MIA o viceversa, un r&b patinato a ritmo urban. Uno strano ritorno a casa con sterzata in direzione trip hop? Una gara ai piani alti direttamente nella r&b league? O la rincorsa per acchiappare le giovani Lorde e FKA Twigs? Forse semplicemente un’autrice che ha fatto parecchia strada e sta cercando di capire che pelle mutare ma alla quale il talento per emozionare e intrattenere continua a non fare difetto.

Alessandro Scotti

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