Se c’è musica nuova, desideriamo il ritorno ai vecchi tempi; se c’è un ritorno in auge dei grandi nomi, desideriamo, annoiati, qualcosa di nuovo. E mentre oscilliamo in questo mare di insoddisfazione e complessità, arriva un barcone di undici artisti pronti a (ri)dar vita ad alcuni brani – non sempre scontati – della discografia di Francesco Guccini racchiusi nella raccolta “Note di viaggio – Capitolo 1: Venite avanti…”, uscita nel novembre 2019.
Premesse a parte, basta scorrere la track list per riconoscere una sensazione di prurito misto ad ansia, seppure la grinta dell’iniziativa di Mauro Pagani sembri rassicurare rispetto alla direzione intrapresa. La voce un po’ affannata, quanto saggia di Guccini apre le danze con un brano inedito dal marchio riconoscibile, certo non quello ribelle e fiero dei tempi di Radici (1972) o Stagioni (2000), ma in linea con le sonorità de L’ultima Thule (2013): suoni acustici, chitarre arpeggiate, leggere percussioni e una fisarmonica accennata che segue armonicamente la voce del cantautore modenese.
Già in questo primo brano, silenziosamente, si riconosce il tocco del Pagani di Creuza De Ma e i suoi “mediterranei” stacchi, semplici e incisivi. Fin qui tutto bene. Forse per tenerezza e nostalgia per quel che è stato?
L’Auscwhitz di Elisa è qualcosa di delicato e lento in linea con l’idea di un canto “leggero” che venga dal vento. Cosa che di certo non può essere detta di Incontro cantata da Ligabue, che ci ricorda che certe canzoni possono essere solo cantate da chi le scrive, o quantomeno ci aiuta a valorizzare ancor di più la bellissima versione di qualche anno fa, 2017, di Roberto Vecchioni, contenuta in “Fra la Via Aurelia e il West (dedicato a Francesco Guccini)”.
Uno a uno, palla al centro… sempre con molta paura. Ma qui accade il miracolo. Una delle più belle canzoni di Guccini (Scirocco) viene affidata a Carmen Consoli, che ne restituisce una versione degna di un omaggio ben riuscito e a tratti più interessante rispetto alla versione originale. Sono 4:58 minuti di godimento, interrotti da una versione “difficile” di Stelle di Giuliano Sangiorgi, che si guadagna una sospensione del giudizio mentre cerco di capire se si tratta di un tentativo di sperimentazione mal riuscito o, piuttosto, di una corazzata Kotiomkin per Fantozzi. E mentre continuo a chiedermelo, arriva un Tango per due di Nina Zilli che convince senza lode, come la versione di Canzone Quasi d’Amore di Malyka Ayane.
Ultimamente si nomina Brunori Sas con attenzione. Merito della sua affermazione come cantautore strutturato, in grado di essere qualche passo avanti a tutta la musica “nuova” che ci circonda. In questo caso il rischio è quello di non ammettere con oggettività che la sua versione di Vorrei perde un po’ di potenza, risultando a tratti piatta e lontana dall’evocare le immagini che tengono insieme un testo delicato e pieno di bellezza.
Quattro stracci di Francesco Gabbani? Ho utilizzato uno dei sei switch di Spotify in versione gratuita, scusate. Bene Canzone delle Osterie di fuori porta di Samuele Bersani e Luca Carboni, che ne restituiscono una versione senza ostentazioni, molto fedele all’originale.
Se fino ad ora il barcone si è tenuto a galla con oscillazioni moderate, la paura a bordo si fa sentire con Noi non ci saremo. Mauro Pagani la giustifica come una versione più fresca, a cui è affidato il compito di creare un ponte tra le canzoni di Guccini e i giovani. Peccato che ne viene fuori una versione molto più adatta ai bambini e molto più efficace se fosse stata affidata al Coro dell’Antoniano piuttosto che a Margherita Vicario, in grado di ostentare – anche in questo caso – un atteggiamento adolescenziale che snerva più che ringiovanire.
L’idea che tutto si concluda con L’avvelenata (qui cantata da Manuel Agnelli) mi piace pensarla come un mea culpa necessario a giustificare un disco che supera di poco la sufficienza, solo per averci ricordato come si scrivono i testi nella tradizione della musica italiana. “E a culo tutto il resto!”.
Renato Murri
