foreverlandIl talento e la classe di Neil Hannon, 45enne nordirlandese, titolare e unico elemento stabile della premiata ditta Divine Comedy, non hanno bisogno di alcuna conferma. La band, che a volte si allarga fino a contenere intere orchestre e altre si restringe fino a esibizioni del frontman da solo con la chitarra, esiste ormai da 26 anni. Hannon ha scritto musica per il teatro, per la tv, per il cinema. Nel tempo libero si può permettere di glorificare le gioie del cricket con il suo side project The Duckworth Lewis Method. Una figura di culto quella del boulevardier di Derry, crooner baritono a metà fra Scott Walker e Jarvis Cocker, che ha anche lambito le vette del successo mainstream con l’album Casanova durante gli anni d’oro del britpop, sull’onda del successo di band come Pulp o Suede (per i quali i Divine Comedy hanno anche aperto i concerti del tour del 92). Il sontuoso chamber pop dei Divine Comedy vanta pochissimi emuli: sia per i riferimenti storici e letterari a un immaginario retrò coltissimo, che servono a mascherare e rinverdire gli eterni temi del pop. Sia perché oggi, dietro una canzone da classifica, ci sono squadre composte da decine di produttori. La visione musicale totale di Hannon, che scrive i testi, compone le musiche, le arrangia e le interpreta, fa dei Divine Comedy un caso ormai abbastanza unico nel panorama odierno: puro artigianato musicale. Se proprio dobbiamo fare qualche nome, oltre ai Belle And Sebastian, restano forse Decemberists e Tindersticks, fra i pochi a giocare in quel campionato.

ll 2 settembre è uscito Foreverland per la Divine Comedy Records (label dello stesso Hannon), l’undicesima prova in studio a sei anni di distanza da “Bang Goes The Knighthood”, che conteneva fra l’altro quel gioiellino che è At The Indie Disco. “Foreverland” è un album intelligente e maturo, fondamentalmente ottimista, giocoso e condito da uno humor sottile e arguto. Parla in maniera ironica, come farebbe un britannico vecchio stampo, di contentezza e di tutto quello che succede dopo la chiusa “e vissero felici e contenti”. L’inevitabile abbrutimento del maschio se solo la sua lei si azzarda a uscire un paio d’ore (How Can You Leave Me On My Own), la consapevolezza che nel passato dell’amata ci sono state altre storie importanti e conseguente gelosia retroattiva (Other People). Ma quando “everything goes shit” c’è sempre un “happy place” dell’anima da raggiungere, dove un banjo ci scalda il cuore. Le sinfonie orchestrali, i cori, la ricchezza delle sezioni d’archi e di fiati, i clavicembali che ricamano malinconici bozzetti, riescono sempre a mantenere una funzione di complemento rispetto alle canzoni. Nonostante le sonorità lussureggianti, gli arrangiamenti risultano al servizio della melodia, senza prendere il sopravvento, funzionando perfettamente nell’economia del brano. Il risultato è un pop come sempre barocco, elegante e comunque leggero, anche quando tende al melodramma.

Ad impreziosire l’album ci sono gli interventi di Cathy Davey, da sette anni compagna di Hannon. Oltre che cantare in un paio di pezzi, Cathy The Great è evidentemente la musa ispiratrice di tutto quell’universo di sentimenti amorosi che il buon Neil distribuisce a piene mani in tutto l’album. “Foreverland” per chi conosce poco i DC potrebbe risultare un lavoro un po’ autocompiaciuto, lezioso e poco coraggioso. Ma si può ribattere tranquillamente che questa è la cifra stilistica di tutta la parabola artistica di Hannon, dandy romantico e divertente, teatrale, gigione, un po’ narciso. Non è compito dei DC sperimentare nuove sonorità o aprire chissà quali inesplorati territori musicali. Sicuramente non ci si annoia mai, nemmeno nei momenti più deboli (la title-track, The Pact) grazie alle molteplici soluzioni sonore e alle ambientazioni avventurose e fascinosamente demodè.

Si fugge da uomini disperati nella foresta, travestiti da suore accennando un passo di mambo (Desperate Man) per raggiungere la nostra bramata. Ci si arruola nella Legione Straniera per dimenticarla (I Joined The Foreign Legion), omaggiando ancora una volta la canzone francese. Si accorre con una dolce ballata al salvataggio della donzella che soffre (To The Rescue) e conta troppi cuori spezzati nel suo passato, attraversando tempeste di neve e pioggia gelata. C’è il bizzarro rinnovo dei voti matrimoniali (The Pact), riscritti come trattati cavallereschi fra stati sovrani su una base orchestrale, c’è la dichiarazione d’amore in duetto boy/girl che sembra una parodia di She and Him, talmente sdolcinata da strappare un sorriso (Funny Peculiar). Si celebra infine l’unicità della fortuna di trovare colui che ti ama davvero e mai ti lascerà (The One Who Loves You), rara come un dodo a Soho (!).

Si può altresì criticare come a tratti Hannon indulga troppo in certi atteggiamenti eccessivamente twee, che rischiano di scadere nel melenso. Questo pericolo nei fatti è sempre scongiurato da un’onnipresente autoironia che stempera i toni. Basta ascoltare due fra i brani più riusciti, Napoleon Complex, in cui Hannon si prende chiaramente in giro a partire dalla statura o Catherine The Great, ode all’amata trasfigurata nella zarina illuminista e libertina (il verso “stava dannatamente bene sopra un cavallo” si può interpretare ambiguamente come un vago riferimento della Lovely Horse Rescue, organizzazione di beneficienza per animali gestita da Hannon e Davey, oppure come una delle maligne dicerie che giravano sulle stranezze sessuali della sovrana russa). L’abilità di Hannon sta proprio nel mantenersi in perfetto equilibrio sulla linea sottile che divide lo struggente dallo spassoso, il solenne dal divertito. Manca forse in “Foreverland” il singolo strappacuore memorabile, ma è una mancanza ben compensata dal livello altissimo dei brani, immediati anche se mai facili, che si infilano dentro le orecchie e non ne escono più per un bel pezzo.

Non è Neverland, l’isola degli eterni ragazzi, quella dei Divine Comedy; è Foreverland la terra agognata. Dove si esalta la bellezza dell’amore tranquillo e quotidiano, quello che non svanisce quando la passione non è più incontenibile. Forse quello che banalmente è il vero amore, e magari dura pure per sempre.

Andrea Bentivoglio

 

 

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