Roma, 8 ottobre 2018

Quello di Xavier Rudd all’Atlantico è stato un concerto scoperto per caso, all’ultimo secondo. Quello che ci abbiamo trovato, dentro a quel concerto, sono state tante conferme e qualche sorpresa.

Conferma che sì, Xavier ci sa fare, con la voce e gli strumenti. Che ha una band di tutto rispetto, con tanto di batterista forse un po’ rigida per l’emozione, ma orgogliosamente donna. Che nonostante i muscoli (madonna, che muscoli) e l’aspetto da sexy surfista, ha un’anima da santone e predicatore di pace e amore. Non ha mancato di dimostrarcelo più e più volte, invocando il rispetto dell’essere umano, l’amore come forza che muove il mondo, eccetera eccetera.

Ma andiamo con ordine: l’ingresso. Nessuna calca, nessuno sgomitare. Il pubblico di Rudd è un popolo unito sotto il segno del Rastafari, ma non certamente una folla. Uomini (sorprendentemente tanti) e donne tendenzialmente nostalgici dell’epoca hippy nelle sue diverse sfumature, tutti attrezzati con almeno uno dei gadget necessari per la serata: collana di legno, tatuaggi, canna, chignon, orecchino di cocco. L’unico a non averne neanche uno è Niccolò Fabi, a poche persone di distanza da me, ma lui può tutto.

Ad assorbire completamente la mia attenzione, oltre a un sosia di Vasco Brondi e a un cinquantenne con Hello Kitty tatuato sul coppino (cosa non si fa per i figli), è l’atmosfera che l’australiano e i suoi fratelli riescono a creare dopo venti secondi di live. Un rito collettivo, uno sciamanesimo musicale, una canna collettiva. Corpi che si sciolgono, mani che si alzano, si muovono sincronizzate e si stringono l’un l’altra, coppie che si baciano, teste che oscillano e occhi che si chiudono. La perfetta carnificazione della sua musica e del suo spirito.

Xavier domina il palco per un’ora e mezzo con esperienza e passione, passando da uno strumento all’altro con scioltezza e facilità, esercitandosi in qualche posizione yoga, lanciando inviti alla ricerca dell’armonia con l’universo e con il proprio io.

Lui e il suo didgeridoo creano un clima rilassato, distensivo, mentre si susseguono le sue tante hit, da Honeymoon Boy a Storm Boy, da Come Let Go a Gather The Hands, per finire su Follow The Sun, che chiude il concerto e prepara ai due bis, con tanto di proiezione di leone-spirito-guida su un cielo coperto di stelle (questo un po’ too much, diciamocelo). In fin dei conti, nel concerto di Xavier Rudd abbiamo ritrovato lui, in ogni sua sfaccettatura, in tutta la sua coraggiosa – a volte stucchevole – onestà.

Giulia Zanichelli