verdena volevo magia

Sono passate tre settimane dall’uscita di “Volevo Magia”. Pochissimo, se pensate con la testa di chi è cresciuto negli anni ’90. Eppure sono quasi certo che la maggior parte di voi abbia già letto almeno una decina di recensioni a riguardo. Arriviamo in ritardo, dunque, ma giocare d’anticipo non è mai stata la nostra ambizione. D’altra parte gli stessi Verdena non sembrano aver avuto alcuna urgenza nel pubblicare questo nuovo disco. Tutti, più o meno, hanno posto l’accento sui sette anni di (quasi) silenzio trascorsi dai tempi di “Endkadenz”. L’argomento è piuttosto noioso, per la verità, perché di band che hanno impiegato tanto tempo prima di sfornare un album di inediti ce ne sono a bizzeffe. Nel caso dei bergamaschi, però, la sottolineatura ha un particolare significato.

In un’epoca in cui per farsi notare sembra strettamente necessario creare un evento, i fratelli Ferrari e Roberta Sammarelli hanno loro malgrado alimentato l’attesa senza il bisogno di strategie di marketing. Proprio il tempo, unito a una carriera ricca di sorprese e di dischi magistrali, ha investito i Verdena di una sacralità che rasenta il mito. I fan nel frattempo si sono moltiplicati e l’acquolina si raccoglie a barili. Il fatto è che lo status di eroi raggiunto dai Nostri (che eroi non sono) rappresenta un’arma a doppio taglio. Da una parte l’opportunità di lavorare senza dover necessariamente giocarsi il tutto per tutto, dall’altra un pubblico orfano di qualità al quale per vedere la luce non resta che aggrapparsi proprio ai primi della classe.

Già nel titolo, “Volevo Magia” rimanda al desiderio, che è proprio dei bambini, di lasciarsi stupire ancora. È un disco che appoggiato sul piatto diventa come il cilindro di un prestigiatore. Lo fai girare e aspetti che esca qualcosa di meraviglioso, di strabiliante. Ecco: per sette lunghissimi anni il pubblico dei Verdena ha atteso che quel cilindro iniziasse a girare. «Volevamo magia, e finalmente l’abbiamo avuta», è stato uno dei commenti più letti. Sono d’accordo. Ma l’incantesimo, questa volta, è di quelli da teatro dell’assurdo. “Volevo Magia” è un album senza pretese, né filtri. Non ha un filo conduttore, non ha un sound univoco, non ha una veste sola. È un manichino che di fronte a un guardaroba troppo ampio finisce per restare nudo. Ma badate bene: non è una critica, tutt’altro. La nudità, lo sappiamo, non può che incuriosire e stuzzicare. Anzi, diciamocelo: non può che eccitare. Certo, non tutti hanno il coraggio di mostrarsi “nudi”. Per farlo servono spudoratezza, autostima e naturalezza. Tre ingredienti che nel 2022, in Italia, sono più rari dell’aglio nero di Montegabbione. Ebbene, “Volevo Magia” si arrocca proprio intorno a questi tre elementi.

I Verdena, per dirne una, non hanno avuto alcun pudore nel piazzare Chaise Long come brano d’apertura. Come singolo, addirittura. Non c’era nulla di più lontano da ciò che il pubblico si sarebbe aspettato per il loro grande ritorno. Eppure l’hanno fatto. Si sono ripresentati con una canzone che sfugge volutamente a ogni definizione, che si inerpica su sentieri tortuosi nella parte centrale e che sfocia in un finale in discesa che è quasi un ritornello. Nessun pudore nemmeno nello sbatterti in faccia una mitragliata hardcore come la title-track. Qualcosa che ricorda da vicino i divertissement metal dei King Gizzard and The Lizard Wizard, ma che nell’ormai nutrita discografia della band lombarda non si era mai sentito prima. C’è anche una certa tendenza al loop (Pascolare, su tutte) e ad adottare inserti di modernariato pescati forse tra gli ultimi ascolti del trio. Un accenno di spoken world, una spolverata di indie-pop, qualche puntata nello stoner più robotico. Salvo poi omaggiare i Wings nel bellissimo hard-blues di Paul e Linda. Se non è spudoratezza questa…

E poi l’autostima, dicevamo. L’orgoglio di poter guardarsi indietro con la certezza di aver fatto le cose per bene. Allora perché non riproporle, quelle cose, sbattendosi di chi sperava in una nuova evoluzione? In “Volevo Magia” si sentono qua e là rimandi alle digressioni pastorali di “Wow”, al pastiche psichedelico di “Endkadenz” e, perché no, al buio esistenziale de “Il Suicidio del Samurai”. Non si tratta di richiami espliciti, non saprei citare nemmeno un brano in cui si possono cogliere con precisione. Tuttavia si sentono affiorare in alcune atmosfere, in certi passaggi, nel processo creativo che prende spesso le distanze dalla forma canzone.

Infine la naturalezza. Quella che permette ai Verdena di agire da artisti liberi, privi di sovrastrutture, e di giocare con un canzoniere variegato, scritto a spizzichi e bocconi tra un lockdown e l’altro. In un album che suona come il “Best of” di un settennato passato tra lo studio e gli affetti privati («che compilation, io sto in un bar»), tutti e tre i componenti della band si sono ritagliati un ruolo importante. Il basso di Roberta Sammarelli la fa spesso da padrone. Sia in versione distorta, sia in assetto più morbido. Cielo Super Accesso, tra gli episodi migliori del disco, si regge interamente su un giro ostinato quasi-punk, mentre X Sempre Assente si snoda in un saliscendi molto dolce. Luca Ferrari, a sua volta, offre forse la miglior prova di sempre. Preciso e instancabile, riempie tutti i vuoti con un pandemonio di fill. Pare quasi di ascoltarlo dal vivo, avvolto nel suo fascio di nervi, mentre dietro un rullante e due tom scatena un terremoto da far accapponare la pelle.

E che dire di Alberto? La sua chitarra, mai come prima, sa essere ferro e piuma in egual misura. Nelle tracce più potenti (Crystal Ball, Paladini) è talmente carica di fuzz da rischiare la deflagrazione. In quelle più acustiche (Certi Magazine, Sui Ghiacciai) si fa fragile e timida quanto basta per sfiorare i pensieri più cupi. Il timbro di Ferrari, fondamentalmente, non è mai cambiato. Bastano pochi versi per risvegliare lo spirito adolescenziale che sgorgava già sul finire degli anni ’90. Con il tempo, però, ha modificato lievemente lo stile. Prima lo ha sporcato di raucedine, poi lo ha impreziosito con qualche mezzo falsetto e infine lo ha imbastardito con piccoli mugugni, scatti rapidi, sfuggenti, e una dose massiccia di effetti. In “Volevo Magia”, l’unione di questi stratagemmi diventa peculiarità. Allo stesso tempo, la voce continua a confondersi tra i suoni, stratificata, a volte addirittura sepolta dalle chitarre e ridotta a un brusio. I testi, da sempre il bersaglio preferito dei detrattori, si prestano come di consueto a una doppia lettura. Un mero insieme di parole facilmente addattabili alla musica o il frutto di una poetica istintiva in cui si svela l’essenza dell’autore. Se si abbraccia questa seconda chiave di lettura, si scoprono visioni grottesche e intuizioni memorabili.

Per tutti questi motivi, “Volevo Magia” è un disco di sintesi. Non certo di apertura e nemmeno di rottura. Non contiene una hit, né un riempipista. È un disco di cui si sentiva il bisogno prima ancora che uscisse. A qualcuno ha lasciato l’amaro in bocca, a qualcun altro brillano ancora gli occhi. Anche per questo è un disco molto bello. Un disco spudorato, orgoglioso, spontaneo. Un disco dei Verdena.

Paolo

 

verdena live 2022
Foto di copertina: Paolo De Francesco