La setta carbonara Asbestos Digit, camuffata da etichetta discografica underground, puzza di vecchio. Ma il tanfo metal e outrock anni ’90 che esala, non smette di disturbare le nostre narici e dice la sua con una compilation di testimonianza: uno spargimento di polline di amianto, che per fortuna non si propaga in lontananza, complice la scelta poetica di nicchia di chi ha partecipato a questa riunione di eletti.

Lucy Mina dà il via a “Eternallyt” (questo il nome della raccolta) con una traccia tra l’ambient, il dark e il dubstep di Burial, ma con un ritmo prosciugato da ogni velleità danzereccia, affogato nel de profundis dei Joy Division di The Eternal. Il cantato, infine, viene sostituito da percussioni distorte che si stratificano sul tappeto sonoro di sostegno, ma per pochi secondi, prima del collasso finale.

Le Cose Bianche propone un recitato enfatico, un po’ alla Massimo Volume, sostenuto da un break industrial e da folate di rumore: una proposta dedicata a chi-non-gli-passa-un-cazzo.

Pierluigi Pugno gioca col silenzio, stira ed allunga pochi suoni minimali come se fossero degli elastici a buon mercato e crea una provocazione in musica tra il meditativo e l’incubo.

La Furnasetta (qui la nostra recensione del loro disco) si dà da fare col metal come un bambino con i castelli di sabbia e mette in scena una versione dei Melvins remixata da un’intelligenza artificiale d’epoca sovietica, dalle parti della DDR direi, a sentire le pennate kraute che danno un tocco pop alla traccia. In coda, poi, un simulacro di voce, a metà tra orrore e farsa, testimonia che gratta gratta qui non si fa altro che maltrattare il vecchio papà rock fatto di basso, chitarra, voce e batteria.

Luca Serrapiglio, il più academico della compagnia cantante per curriculum, usa i fiati e il jazz per imbastire una mini suite sostenuta da un loop rapido, su cui si afflosciano filamenti sonori e pizzicato da rumori ambientali distorti. Di nuovo fa la sua comparsa la parodia di voce umana, come in altre tracce qui presenti. Una prova degna di “Ummagumma”.

Mademoiselle Bistouri è rumore bianco, nulla di più, ottuso come un fan di una pagina gentista e senza cedimenti ad ogni critica, come un kamikaze dell’ISIS. Quel che colpisce davvero, però, è una sorta di eleganza formale elitaria e severa, che ad essere sinceri si trova spesso nel noise droning di migliore scuola.

Gianmaria Aprile nuovamente architetta un recitato – qui in francese – sostenuto da un ambiente sonoro, per l’occasione elegante, patinato e vagamente esotico grazie al flauto di pan che fa da controcanto alla voce narrante.

Legendary Gay Cowboys ricorda i Suicide o certo Japanoise più rocckettaro, con venature emo nella melodia celestiale che si arrampica sulla base reiterata, ed è forse la canzone più carnale di quelle a cui si accompagna qui. Un inno all’amore promiscuo che sarebbe piaciuto a Jerry Garcia.

Faluomo ha un suono organico abbellito da una tastiera che potrebbe addirittura portarci dalle parti del garage rock dei Fuzztones, ma la mancanza di una vera infrastruttura ritmica e di una voce fa più pensare a un medusa che a uno scattante felino. La psichedelia e la grandeur sono dietro l’angolo.

uBik innesca un attacco new age per depressi cronici, limpido ma metallico, e prosegue con un galoppo rutilante, pericoloso come un flusso d’acqua a briglie sciolte, che muta in mille forme solide e gassose, degno sigillo per “Eternallyt”.

Notevole è il fatto che molti dei trucchi del mestiere utilizzati siano condivisi da più di un partecipante a questa collezione, ad esempio l’uso di voci recitate su tappeti sonori, o la sostituzione del cantato con rumori e distorsioni, nonché la tendenza all’arrangiamento minimale, quasi da indovinello zen, o da schizzo, o barzelletta da spiaggia se volete. L’effetto finale fa pensare ad un incrocio rinnegato tra la merda d’artista di Manzoni e i tagli in serie di Fontana: un tributo del ceto medio riflessivo, e disgustato dal volgo, alle meglio radici delle avanguardie pop nazionali.

Alessandro Scotti