Negli anni settanta Altman girò tre film sulla schizofrenia femminile, intesa come scissione della personalità. Il più bello, “Tre donne”, è l’ultimo della trilogia, che inizia con “Quel freddo giorno nel parco” e continua con l’inquietante “Images”. Quella che Bleuler, uno dei padri della psichiatria, aveva chiamato Spaltung, è ben resa dal regista americano facendo incarnare a tre attrici diversi aspetti della femminilità. Come in uno specchio rotto che riflette un’immagine frammentata, così Millie, Pinky e Willie si avvicendano e si riflettono l’una nell’altra in una danza caleidoscopica, sfiorandosi e fuggendosi. La regia di Altman amplifica questa sensazione di sdoppiamento, oltre che palesemente con la metafora delle gemelle, attraverso alcune sue tipiche scelte stilistiche, come punti di vista dietro finestre, specchi riflessi e spazi schiacciati.
“Tre donne”, del 1977, si colloca circa dieci anni dopo “Persona”, il capolavoro di Bergman, di cui sembra un erede dalle tinte acquatiche e misteriose e i cui continui scambi d’identità, avvengono in un’atmosfera onirica dove la realtà è divorata da una forza primitiva simbolica e inquietante. Altman dichiarò apertamente l’influenza del maestro svedese, di cui richiama il rapporto di violenza, prevaricazione e simbiosi tra le protagoniste. Disse inoltre che “Gli affreschi designano il fondo primitivo di questa storia”. Nel film Willie (la terza donna) dipinge babbuini metà uomo e metà donna, immagini primordiali sulla soglia dell’inconscio, cui si accompagna un uomo, verosimilmente Edgar. Come vittime di un incantesimo Junghiano le donne del film generano e ammirano archetipi femminili, dall’acqua (che permea ogni scena), al latte, al sangue, in un mondo di eros e thanatos, delle quali sono vittime e artefici. Tra gli affreschi di Willie s’intravede inoltre il profilo del serpente cosmico, che divorandosi e nello stesso tempo rigenerandosi continuamente forma un ciclo continuo di nascita, morte e rinascita.
Pinky è il filo conduttore della storia, colei che non ha identità, non ha nome e che rifiuta i propri inverosimili genitori, liberandosi di ogni radice e diventando donna in un mondo di donne. Dalla seconda parte del film, dopo il suo ritorno dall’ospedale, rediviva e folle, tutto cambia e s’intravedono alcuni aspetti che Jung, nei primi del ‘900, aveva teorizzato nell’archetipo della Grande Madre: “La magica autorità del femminile, la saggezza e l’elevatezza spirituale che trascende i limiti dell’intelletto; ciò che è benevolo, protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; i luoghi della magica trasformazione, della rinascita; l’istinto o l’impulso soccorrevole; ciò che è segreto, occulto, tenebroso; l’abisso, il mondo dei morti; ciò che divora, seduce, intossica; ciò che genera angoscia, l’ineluttabile». In un mondo come questo non c’è posto per gli uomini e, dopo la morte dell’ultimo cucciolo, non ci sarà più vita. Lo stesso Altman, riferendosi a uno degli unici protagonisti maschili “If you were to ask me where I think Edgar is at the end of the film, I think he’s buried under those tires.” Presentato a Cannes nel 1977, dove Shelley Duvall vinse come migliore attrice protagonista, “Tre donne” non ottenne grandi riconoscimenti, se non dal passare del tempo, nel quale sembra ancora sospeso, avvolto dai propri misteri e dalla propria oscura incredibile bellezza.
Il Demente Colombo