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Storia del punk italiano: intervista a Lucy Lo Russo degli HCN e i Sunset Boulevard

Abbiamo conosciuto Lucy Lo Russo durante il concerto dei Pere Ubu il 13 settembre scorso alla Santeria Social club di Milano. Incontrarla durante il live di una leggenda vivente del punk e della new wave non è stato certo casuale, dato che lei stessa è stata protagonista di quel fenomeno musicale fin dalla sua nascita. Dopo le prime esperienze come attrice caratterista per campagne di pubblicità stampa e Tv, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 Lucy è stata tra i fondatori degli HCN e dei Sunset Boulevard, ovvero due tra le prime band punk milanesi e italiane, di cui era cantante e autrice dei testi insieme agli altri membri. Complice la recente uscita del libro di Fabrizio e Stefano Gilardino “Il Quaderno Punk”, che racconta di quei giorni includendo anche una delle band di Lucy, abbiamo deciso di intervistarla per chiederle cos’abbia significato il punk per lei e per “quelli come lei”. Ne è uscita una bellissima chiacchierata.

A cura di Alessandro Scotti

 

Ciao Lucy, la prima volta che hai sentito parlare di punk quando è stato?

Nel 1979, quando io e il mio fidanzato di allora incontrammo altri ragazzi alla Fiera di Senigallia – che allora si teneva vicino al Parco delle Basiliche a Milano – e acquistammo i primi dischi di importazione. Lui però era andato a Londra già l’anno prima… La folgorazione fu ascoltare l’album “Never Mind The Bollocks” dei Sex Pistols, il primo dei Clash, le raccolte in vinile di gruppi punk vari. Anche leggere le prime pubblicazioni di Arcana Editrice. Poi sono iniziati i “pellegrinaggi” a Londra, che si facevano sia per conto proprio che in gruppo.

Qual era il background musicale tuo e degli amici con cui hai condiviso dall’inizio la passione per quel nuovo stile?

Non si può parlare di background comune. Io ero stata onnivora fin da giovanissima: ero passata da Baglioni a David Bowie nel giro di poco tempo. Avevo anche avuto la sbornia per la West Coast e l’innamoramento per il film “Woodstock”. Ero ancora una teen-ager, ma avevo già assistito ad alcune edizioni di “Umbria Jazz”. Infatti ero iscritta alla Civica Scuola di Musica al corso di clarinetto. Ma di lì a poco avrei interrotto lo studio per darmi al Punk. Penso che molti amici avessero ascoltato del Glam e la musica Mod. Sicuramente ascoltavamo Bowie, Iggy Pop e Lou Reed. Del resto alcune pubblicazioni italiane proponevano – e non a torto – dei legami tra questi ribelli e i primi punk.

E qual era il background socio-demografico ed economico di chi si avvicinava al punk? Era trasversale o connotato in qualche modo?

Era molto vario. Io stessa venivo da una famiglia borghese, ma vivevo in una casa occupata dove sono stata per otto anni. Venivo da una zona “bene” di Milano ed ero andata in uno stabile in centro, in corso Garibaldi. Attenzione, però: era un luogo molto vivo e stimolante, pieno di contrasti, diverso dall’odierna “movida”. Gli altri ragazzi e ragazze della scena punk venivano dalle varie periferie, ma alcuni erano anche di estrazione agiata. Alcuni lavoravano già, alcuni studiavano ancora, alcuni vivevano in famiglia, alcuni – come me – l’avevano lasciata in modo drastico. Avevamo dei posti di ritrovo in cui si confluiva tutti assieme.

1979. La lineup originale degli HCN. Da sinistra: Gianmaria Martinazzoli, Marco Philopat, Nino La Loggia, Lucy Lo Russo e – non presente ma nel gruppo – Fabio Marinoni.

Perché il punk ha conquistato te e gli altri della tua “scena”? Che corde ha toccato? 

I grandi gruppi musicali degli anni ’70 erano ormai dei giganti lontani dai loro fan e coi quali un teen-ager non poteva più identificarsi. Al disagio giovanile, alla rabbia e alla fantasia non ancora incanalata, il punk faceva una semplice promessa: anche tu – con due accordi di chitarra e la giusta energia – puoi creare la tua band. Trova una cantina, una sala prove e comincia da domani a creare i tuoi pezzi.

Punk e Milano: che differenza c’era rispetto ad altri grossi centri e alla provincia?

Ti dico la verità: vivendo noi a Milano abbiamo avuto il privilegio di incontraci, di creare dei posti di ritrovo (sono storiche le prime feste al “Sì o Sì” che era in zona Porta Romana), di assistere a concerti live di band importanti (in auditorium, al Palalido, all’“Odissea 2001”, che era in Forze Armate…). Abbiamo visto i Clash, i Ramones, le Slits, i Damned, i Killing Joke, i Plasmatics, solo per citarne alcuni. Si creò anche una scena di gruppi “autoctoni” che seppure hanno inciso poco – a livello discografico, specie agli inizi – sono stati presenti e hanno creato una piccola o grande mitologia. Io mi muovevo poco dalla mia città. Mi spostavo per i concerti. Ogni posto ha avuto la sua specificità. Penso che il libro di Fabrizio e Stefano Gilardino [ndr “Il Quaderno Punk, 1979 -1981, La nascita del nuovo Rock Italiano”, 2018, Goodfellas] abbia ricreato attraverso le interviste anche la situazione di altre città. In fin dei conti per me era più vicina Londra che non Roma, Genova o Bologna, dove magari si andava per un’occasione specifica. Anche “Lumi di Punk” di Marco Philopat ricostruisce il clima [ndr Agenzia X, 2006].

Cosa vi ha portato a fare i punk? Musica? Fanzine? Moda? Imparare a suonare? Suonare senza saperlo fare? Scoprire avanguardie? Fare esperienze associative?

Incrociare il Punk proprio nei miei 18-20 anni mi ha dato la possibilità di definire la mia immagine. È noto il fatto che l’abbigliamento aveva un peso nell’essere punk. Indossare il chiodo, gli stivali neri o gli anfibi, indossare le badge dei gruppi, tagliarsi i capelli era un modo per aderire a un’idea. Io stessa avevo iniziato una piccola produzione di orecchini in plexiglas e di bracciali con le borchie! Dal 1979 al 1981 ho avuto due band, gli “HCN” e i “Sunset Boulevard”. Le formazioni duravano poco: il terreno era mobile. La scena molto viva, ma non ampia come quella di Londra. Avere ingaggi non era facile, e il punk era visto con sospetto se non dileggio nei media. Eravamo un po’ delle “mosche bianche”. Persino da “sinistra” ci vedevano male a causa dell’abbigliamento nero, del trucco e di simboli usati in maniera provocatoria. C’erano le prime riviste di settore come Rockerilla, Musica 80. C’era molto e si faceva con poco: i primi volantini delle serate li producevamo col collage, in vero stile punk!

Centri sociali e 77: che relazione c’era ai tempi con il punk italiano, e milanese in particolare?

Come ti ho detto c’erano molte case occupate alla fine degli anni ’70. Ma non tutte avevano una connotazione politica o di centro sociale aperto alla città. C’era “Santa Marta” che ha retto diversi anni, o la casa occupata di via Lanzone – dove c’erano solo donne, per scelta. Oppure “Correggio” con l’esperienza del “Vidicon” (che proiettava film e faceva sperimentazioni sull’immagine). Su quest’ultima è molto bello il libro di Massimo Pirrotta, “Le radici del glicine” [2017, AgenziaX]. Però bisogna dire che molti di noi conobbero il punk quando i Sex-Pistols si erano già sciolti. Direi che il punk italiano si situa tra il 1979 al 1981. Poi siamo già al post-punk.

Che strade e schemi mentali ti ha aperto il punk? Cosa ti ha lasciato di positivo, ma anche eventualmente di negativo?

Diciamo che attraverso il punk ho messo alla prova la mia creatività: in fin dei conti – anche se al momento la discografia ha ignorato molti di noi – abbiamo messo nero su bianco le nostre idee attraverso i nostri brani e il materiale che, personalmente, ho conservato e spero di dare alle stampe. Alcuni di noi cantavano inglese, alcuni in italiano. Il produttore Giacomo Spazio ha portato in mostra i “reperti” di allora. Di positivo c’era la voglia di stare sotto al palco in prima fila, di partecipare in maniera molto solidale, di creare la propria band come urgenza interiore. La curiosità e l’iniziativa non mi hanno abbandonato. In quel periodo cercavo la mia identità, e facevo anche i primi lavori come attrice. Però essere parte di un gruppo esteso – un movimento – è stata una bellissima esperienza. I fattori negativi forse sono gli eccessi e i morti di eroina che ci sono stati. Ma questo penso che – purtroppo – non sia avvenuto solo nel punk.

1980. Nino La Loggia e Lucy Lo Russo negli HCN.

Nella musica attuale esiste qualcosa di simile allo spirito del 77 e a quello che ha sprigionato? Oppure è passato così tanto tempo che ha perso senso paragonare il punk con la musica giovanile e protestataria di un mondo fatto di nativi digitali de-ideologizzati e App che hanno più successo delle rock star?

Ci sono musicisti di allora – i big – che è bello vedere. Delle band italiane di allora rimangono singoli musicisti che portano avanti progetti musicali circoscritti, ma è bello sapere di avere fatto parte della stessa avventura. C’è anche una generazione più giovane, di rari esempi, che si è formata su quella musica e ora sta cercando di emergere. Mi riferisco a persone sui 30 anni o anche 40 che si muovono nel post-punk, nel garage. Penso a Nero Kane (che fa un rock-blues desertico unito alle immagini di Samantha Stella), ai The Scrubs (garage), gruppi che ho sentito recentemente. E nei parterre ho conosciuto, proprio adesso, gente bellissima con cui ho intrecciato nuove amicizie. Poi ci sono musicisti e animatori culturali che attraverso i social fanno da collante per informazioni sulla scena odierna, penso a “Drynamil” – su FB – di Valerio Frezza. Ai giovanissimi si può solo raccontare quella storia e fare in modo che si appassionino. Io, come insegnante di inglese, racconto chi erano i Sex Pistols, Billy Idol, i P.I.L. Solo così si passa il testimone.

Quando hai smesso – se hai smesso – di essere punk?

Nel 1981 c’è stato lo scioglimento dei “Sunset Boulevard” avvenuto per vari motivi. La leva era obbligatoria e quindi due membri della band dovettero partire per il militare, inoltre io e il chitarrista ci lasciammo. Lui poi ha creato un altro gruppo [ndr. i “2+2=5”]. La scena non era così ampia per trovare una nuova collocazione. Ricordo di avere riprovato a fare rock/reggae-rock, ma la cosa non era più la stessa. Nel 1987 ho partecipato a Filmaker col mediometraggio “Amore Pagano” di Claudio Pappalardo e Piero Motta – che venne registrato nel 1985 – dove ero attrice e co-autrice della sceneggiatura: mi sono portata un po’ di punk in alcune scene dove avevo ancora un taglio di capelli con ampie rasature ai lati e col testo di un brano originale. In seguito ho avuto un trio jazz con lo pseudonimo Pixie La Rouge. Recentemente ho cominciato a scrivere di musica. L’anno scorso ho intervistato Glen Matlock e per me è stato un vero momento magico. Gli ho fatto autografare gli spartiti su cui provavamo quando eravamo teen-ager per fare le cover. Mi ha detto una frase che mi ha fatto piacere: “Sei sempre punk, e lo rimarrai sempre!”. Anche se ho fatto tante cose in questi anni, mi piace ancora ascoltare il punk. Personalmente sono pronta a una reunion del mio gruppo – in studio forse sarebbe più facile – ma bisogna essere tutti d’accordo. E pare che l’accordo non ci sia ancora. Ma forse è meglio così. Che rimanga il mito e il bel ricordo. Anzi, di più, una forgiatura. La pubblicazione – ora – di brani che sono stati inediti così a lungo è già una grandissima soddisfazione.

 

Dopo l’esperienza punk, Lucy ha fatto cabaret con diversi monologhi, talvolta accompagnata da un trio jazz. Con lo pseudonimo Pixie La Rouge si è fatta conoscere al grande pubblico diventando “esperta” di seduzione e pubblicando due manuali di costume sull’argomento – uno per “lei” (“A scuola di seduzione”, 1998 Lupetti Editori di Comunicazione) e uno per “lui” (“Amateci Così”, 2007, Sperling & Kupfer), con dovizia di suggerimenti per migliorare il proprio fascino. Ora si dedica all’insegnamento dell’inglese e alla scrittura come giornalista, talvolta corredando i reportage con sue fotografie. Sta curando un archivio del periodo punk e post-punk degli anni ’80. La si può seguire sul suo account pubblico di scrittura su Facebook: https://www.facebook.com/PixieLaRougeScrivo/

 

Lucy Lo Russo in una foto recente, nei panni di Pixie La Rouge (ph. Paolo Lanz).

 

La foto di copertina è tratta dall’articolo di Marco Philopat, Il virus del punk a Milano (1977-1984), apparso in “Clionet. Per un senso del tempo e dei luoghi”, 1 (2017) [].