Premessa: lunga vita al Todays
Un uomo mi osserva dalla finestra mentre parcheggio a due passi dallo Spazio 211. Lui si nasconde dietro una persiana, io gli lancio un’occhiata dal basso. Poi il suo sguardo si sposta verso un altro gruppo di festivalieri che si accingono ad entrare. Uno di loro si sta cambiando la maglietta. Toglie quella sporca e ne mette una nuova. È una maglietta dei Cure. Nera ovviamente.
C’è fermento, passione. Erano tre anni che non venivo più qui, a Barriera di Milano, quartiere periferico di Torino. Tre anni senza Todays Festival. Il mio antidoto estivo ai tormentoni di Giusy Ferreri. Beh, ma… che cosa è cambiato? Mi guardo un po’ in giro. Sulla parete di un palazzo è comparsa la scritta “Barriera non vota Lega”. Quanto a coscienza politica ci siamo, direi. Dentro un’auto in doppia fila c’è un cappello con la fotografia di Maradona stampata sulla fronte. Avete presente? Mondiali 1986: Diego guarda verso l’infinito mentre ascolta l’inno dell’Argentina. Quella foto lì.
Sorrido, penso che stasera gioca il mio Milan. Nei bar del quartiere i vecchi torinesi continuano a giocare al Totocalcio. Niente di nuovo. Ma è fuori, in strada, che si respira un’aria diversa, più frizzante, più viva. C’è voglia di rinascere, di stare bene anche lontano dalle piazze-salotto della città sabauda. E il merito, sia chiaro, è anche di Todays Festival. Non si sottolinea mai abbastanza, ma questo è uno dei più importanti obiettivi raggiunti dall’organizzazione in tanti anni di duro lavoro. Spazi urbani rigenerati, un percorso identitario ben preciso, migliaia di persone di ogni età e provenienza. La cultura come arma affilata, la perseveranza come scudo protettivo. Benritrovata Barriera di Milano, benritrovato Todays. Chiudo la macchina e mi avvio verso l’entrata.
Squid: tutto il meglio, subito
Parliamo di musica. Questo è il secondo giorno di festival. Ahimè, l’unico che posso concedermi di questa settima edizione. Perciò non voglio distrazioni, devo godermi ogni singola nota. E si parte forte, fortissimo. Alle 18.45 precise, sfiorati dagli ultimi raggi di sole, si presentano sul palco gli Squid. Vengono da Brighton, città da sempre animata dalle onde violente del suo mare. Per semplicità sono stati inseriti nel calderone del post-punk revival, ma il loro live rivela un’indole diversa e riferimenti frastagliati. Sono i primi a esibirsi, ma nella mia personale classifica di gradimento rappresentano il main act della serata.
Aspettative ricambiate, e pure ampiamente, con un’accelerata finale che rasenta la meraviglia. Perché? Perché i nostri cinque hanno un asso nella manica. Ero tentato di scriverlo con la M maiuscola, ma vi risparmio la battutaccia. Allora chiamiamola carta vincente e non se ne parla più. Anzi, chiamiamola con il suo vero nome: perizia tecnica, abilità, preparazione. Sembra scontato, ma al giorno d’oggi non lo è affatto. Ci sono band blasonate che suonano così così. Gli Squid no, loro ci sanno fare per davvero. Ed è proprio questo elemento che permette loro di surclassare molte altre band della nuova ondata. Dal vivo si nota benissimo. Con quella padronanza lì, uscire dagli schemi viene più facile e naturale. Su disco potrebbero sembrare gli ennesimi cloni di Talking Heads e The Fall. Ci ero cascato anch’io, lo confesso. Poi, però, ti rendi conto che dentro la loro musica c’è anche molto altro. C’è il kraut-rock dei Neu!, il math-rock dei Battles, l’indietronica di LCD Soundsystem, il post-rock di chi volete voi. Declinazioni diverse, miscela originale. Un gioco a incastri un po’ anarchico, che fa scuotere il bacino sotto il palco. In scaletta ci sono parecchi pezzi del loro unico LP, “Bright Green Field”. Andrei avanti ad ascoltarli per giorni. Lo dico fin d’ora: miglior concerto della serata.
Los Bitchos: a che serve la voce?
Poi tocca alle Los Bitchos. Per vantarmi, dico sempre di averle scoperte tre anni fa quando nessuno le conosceva. Sono stato indie prima di voi, direbbe Max Collini. Banalmente, ero incappato per caso in questo video live trasmesso da KEXP. Tutto qui. Ma mi erano piaciute parecchio. Ad aprile hanno suonato anche a Milano, ma me le sono perse. Perciò sono curioso, curiosissimo.
Ebbene, anche loro superano le mie aspettative. Anche loro ci sanno fare. E come se non bastasse, anche loro fanno della contaminazione un’arma vincente. Il mirino, questa volta, è puntato su territori più esotici, tra cumbia, funk, tequila vibes, reggae e desert rock. Sempre e comunque con il sorriso sulle labbra. La sabbietta del Todays si fa arida e bollente sul groove costruito ad arte da basso e batteria. La chitarra di Serra Petale, autrice e leader della band di stanza a Londra, sostituisce la voce in brani rigorosamente strumentali. Suona e lancia sguardi di stupore verso il pubblico. Come a dire: “Ma che sto facendo?”. Tranquilla, cara Serra, è tutto ok. Tutto, meravigliosamente, ok.
Le Nostre ci regalano un’oretta di set, lo spazio perfetto per un gruppo come loro. Il tempo di un paio di cocktail, di quelli con l’ombrellino di carta e lo spicchio d’arancia spezzato sul bordo. Un trucchetto che inganna quasi sempre. Questo è leggerino, pensi. Se c’è l’ombrellino sarà una sciocchezza da minorenni. Butti giù e ti ritrovi a ballare come a Copacabana in piena estate. Una manna dal cielo. Effetto Los Bitchos.
Molchat Doma: spettacolo naturale
Vado in ordine, eh. Così non mi sbaglio. È il turno dei Molchat Doma, il trio darkwave bielorusso che da qualche anno sta facendo parecchia fortuna. Lo si nota subito dal pubblico e dal suo abbigliamento. Il pratone del Todays è puntellato di nero. Tanti sono qui soltanto per loro, sono pronto a scommetterci. C’è una frangia gotica tra gli abituali indierockers. Una pennellata scura tra le camicie hawaiane. Ma lo confesso: i Molchat Doma non mi piacciono. È una questione di gusti, non posso farci niente, anche se l’universo a cui guardano l’ho sempre apprezzato. Ma c’è troppa drum machine, troppa nostalgia ostentata, anche il crooning del cantante Egor Shkutko mi pare forzato. I synth dei New Order, le linee di basso dei Cure (pure citati con qualche nota di A Forest), new wave continentale, addirittura un sentore di Human League negli episodi più pop. Gli ingredienti ci sono, ma l’esperimento è troppo serioso, troppo ancorato alle atmosfere di 40 anni fa per riuscire a conquistarmi.
Ma attenzione, c’è un però. Anzi due. I Molchat Doma lo fanno alla perfezione. Nessuna sbavatura, un’esecuzione che ai fan credo sia piaciuta tantissimo. L’ho visto nei loro occhi chiusi, sognanti, persi nelle lande desolate di qualche sobborgo post-sovietico. L’ho letto nei loro commenti entusiasti. E poi, a rendere il live ancora più suggestivo, ci pensa il meteo. Un cielo increspato dai lampi dei temporali in arrivo fa da sfondo dietro il palco. Una scenografia naturale che si sposa alla perfezione con i ritmi oscuri dei Molchat Doma. Infine la pioggia, che dopo il tuono si abbatte sul concerto, non sposta di un centimetro il pubblico, rimasto a godersi lo spettacolo. Quindi bene così, un altro obiettivo centrato.
FKJ: la perfezione in salotto
L’atto finale spetta a FKJ, ovvero French Kiwi Juice, producer francese ormai noto ovunque, che fa dell’eclettismo il suo punto di forza. Il tempo concede una pausa dalle piogge e la scenografia cambia radicalmente. Dalla notte da incubo dei Molchat Doma si passa a una serata tranquilla, morbida e profumata, nello stiloso salotto allestito sul palco con tanto di divano, tavolinetto con giradischi e paralume di carta. Vincent Fentom, questo il vero nome dell’artista, sprigiona coolness con la sola imposizione delle mani. Suona (quasi) tutto lui: chitarra, piano, sassofono, synth. Impasta, sminuzza, riamalgama, campiona voci e strumenti in un lavoro certosino che non ha mai sosta. Con lui ci sono un bassista e un batterista di scuola nu-jazz e una sezione d’archi che dona ai suoi brani una patina di romanticismo antico e aristocratico.
Trovare un difetto nella performance di FKJ è un’impresa impossibile. Il suono oscilla tra r’n’b, nu-soul, acid jazz e french touch, in una prova che asciuga l’anima prima ancora che i nostri vestiti. La conclusione, naturalmente, è affidata alla traccia che l’ha spedito nell’olimpo dei produttori internazionali. Tadow è un brano irresistibile, perfetto, nato nel 2017 da una jam session con l’artista giamaicano Masego. Il video che ha immortalato l’esatto istante in cui è nato il pezzo ha oltre 400 milioni di visualizzazioni. Se non lo avete ancora visto, godetevelo qui. Ecco, ora pensate alla goduria di assistere a tutto questo dal vivo.
Paolo
Qui sotto, alcuni video realizzati durante la terza giornata di festival. Buon ascolto!
Primal Scream:
Yard Act:
Arab Strap:
Arab Strap:
Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.