Il movimento hiphop, la street culture ad esso collegata e la sua musica in quattro quarti si sa, ha un’identificazione geografica ben precisa. Talmente iconica e localizzata da essere spesso associata in modo univoco a un movimento che in realtà è stato contaminato, ampliato e arricchito moltissimo anche da altre realtà urbane, all’interno e all’esterno dei confini degli Stati Uniti. Eppure il “genere” si identifica da sempre con la città che gli ha dato i natali: New York City. E come discostarsene del resto? È la città-mondo per eccellenza, crocevia di culture, di fenomeni migratori, di contaminazioni, di suoni, nel mondo occidentale. Non hai mai seguito l’evolversi della rap culture? Su Netflix trovi decine di documentari e una serie TV (The Get Down, ma anche Hiphop Evolution) che confermano che da NYC non si può proprio prescindere, se vuoi capire qualcosa di questa cultura. L’ho sperimentato sulla mia pelle soggiornando a lungo a NYC: l’hiphop è qualcosa che vivi, che non ricerchi come al di qua dell’Oceano, che semplicemente è nelle persone, nelle movenze, nei luoghi, nel parlato, nel modo di comportarsi. L’hiphop è nato e cresciuto nelle strade di New York, punto.
Vero e sacrosanto. Ma che dire di altre città fondamentali quali Philadelphia, con i suoi The Roots (ma anche the originato Schooly D o la grande Bahamadia), Atlanta (Outkast, Goodie Mobb, Ceelo Green), Houston (Solange, Beyonce), Detroit (J-Dilla, D12, Eminem), senza parlare di Los Angeles… Ognuna ha aggiunto a suo modo, con i suoi stili e sotto-generi, pennellate importanti all’affresco globale dell’espressione ultima della black music.
C’è poi una città che da sempre ha saputo portare suoni e al contempo contenuti importanti, che attraverso i suoi esponenti più illustri ha cercato di differenziarsi dalle varie ondate sonore spesso modaiole alle quali sono da sempre esposte le città appartenenti alle due coste (East e West). Questa città è Chicago.
Le ragioni sono diverse, ma ascrivibili anzitutto alla sua dislocazione geografica: The Windy City (e se ci siete stati non vi sarà difficile capire perché venga chiamata così), è una città di musica dai tempi in cui i cantanti blues risalivano il corso del fiume Mississippi in cerca di gloria nei jazz club locali, è lo sfogo naturale per gli afro-americani in transito dal sud schiavista al nord libero, un punto d’approdo ideale per jazzisti, bluesman, cantanti gospel che negli anni hanno transumato dalla città con i club più ambiti d’America contaminando poi con stili e suoni diversi anche la musica rap, come è normale che sia per un genere derivativo per definizione.
Alle ragioni storiche si sommano quelle socio-razziali, dato che proprio questi moti migratori hanno portato la città a crescere a dismisura negli ultimi due secoli e ad accogliere nelle aree suburbane, soprattutto nel purtroppo famigerato West-Side, sacche di povertà assoluta, inaspritasi a tal punto negli anni post 2008 e crisi finanziaria da trasformare la città di Al Capone (e anche per questo mai proprio tranquillissima) in una delle realtà urbane attualmente più pericolose degli States. Suo il record di omicidi nel 2016 per una singola città negli Stati Uniti. Roba che al confronto Compton (Los Angeles) o Flint (cittadina del Michigan) impallidiscono al confronto.
Da music-city, Chicago anche nell’hiphop si è distinta fin dalla prima ora grazie a rapper di culto, portatori di messaggi impegnati anche molto forti come Common (Sense), ma anche per innovatori assoluti del genere come Kanye West o Lupe Fiasco, ma è nel 2016 che di fatto è esplosa in forza creativa con la new generation capitanata dal rap-gospel di Chance The Rapper, vero e proprio fenomeno mondiale nella black music del 2016 secondo tutta la stampa (ed il pubblico) di settore. La conferma è arrivata dalla recente vincita di tre grammy awards, tra i quali quello di miglior artista emergente e miglior rap album (!). Altre voci ispirate sono le rapper/slammer No-Name e Jamil
Sarà il periodo storico, il risveglio delle coscienze post-Obama e coincidente con le rivolte di Ferguson e di Black Lives Matters in risposta al crescente razzismo fomentato dall’amministrazione Trump, sarà la somma dei fattori citati in precedenza, che fanno di Chicago una città quantomeno interessante sotto il profilo socio-economico-demografico, ma la rivoluzione in musica è partita da qui. Ed è prima di tutto una questione di atteggiamento verso la musica, propositivo e meno volgarizzato di quanto fatto dagli amici los agnellini e newyorkesi in passato (non tutti eh!), e poi un fatto di suoni, liriche, stili compositivi.
Una rivoluzione dal basso, come tutte quelle vere, profonde e di matrice black fino al midollo, di cui francamente sentivamo il bisogno. Se non altro per rispondere in maniera più soft e meno manierista all’altro chicagoano Kanye, che l’hiphop l’aveva portato anche un po’ troppo fuori dai suoi binari, pur facendolo anche qui con stile da vendere e con una visione personalissima, ancorché strumentalizzata per lo show business di matrice bianca. Sono Rose (tanto per citare il cognome del giocatore di basket, sport legato a doppio filo con l’hiphop, simbolo di Chicago) e stavolta sono già fiorite. Rap Gods from Chicago.
@lucamich23

Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.