notwist vertigo days artwork

Notwist, una conferma

Mi piacerebbe lanciare un annuncio. Urlarlo a squarciagola in mezzo alla strada: «Ehi gente, sono tornati i Notwist! Il nuovo disco!». Ma oltre a suonare un tantino fuori luogo, per cui lo eviterei, la verità è che la più importante band tedesca degli ultimi 30 anni (sì, avete letto bene, trent’anni) non si è mai del tutto allontanata dalle nostre orecchie. Credetemi, quella non è gente che fa a meno della musica. Non è il caso di elencare tutte le band parallele, l’etichetta, i mezzi impegni e i progettoni a tempo pieno, le colonne sonore, gli esperimenti e le collaborazioni che i fratelli Acher hanno imbastito nel frattempo. Ma fidatevi, ce ne sarebbe da parlare per buona parte di questa recensione. Non un vero e proprio ritorno, dunque. Piuttosto una conferma. Un “Ciao, come state, siamo sempre noi”. 

Non sarebbe comunque sbagliato sostenere che questo “Vertigo Days”, pubblicato nei giorni scorsi per l’etichetta indipendente berlinese Morr Music, esce dopo un lungo silenzio dall’ultimo disco, diciamo tradizionale, targato Notwist. Delle varie creature partorite dalla mente dei nostri, vale la pena citare almeno l’Alien Disko Festival, la rassegna curata dalla stessa band nell’amata Monaco di Baviera. Lo facciamo perché proprio su quel palco il nucleo storico del gruppo ha stretto ben più di un’amicizia con gli artisti che poi avrebbero preso parte a questo nuovo lavoro. Dalla voce aliena di Saya (del duo indiepop giapponese Tenniscoats), a quella più calda della cantautrice argentina Juana Molina.

Una vacanza astronomica

Ma andiamo al sodo, direte voi. Il fatto è che di sodo, quando si parla dei Notwist, c’è sempre molto poco da gustare. E non è una critica, sia chiaro, ma un modo volgare per (re)introdurvi nella dimensione immateriale, vaporosa e inafferrabile della musica del collettivo tedesco. Insomma, credo che molti di voi conoscano già di cosa stiamo parlando. A ogni disco dei Notwist (esordi punk a parte, quella era tutta un’altra storia) ci si ritrova invariabilmente immersi in un chiaroscuro molto poco reale, che oscilla tra il sogno e la fantascienza. Un po’ come stare immersi nel fascio di luce al neon che taglia le immagini di Blade Runner nella scena d’amore tra Deckard e la replicante Rachael.

E proprio l’amore è il tema centrale di “Vertigo Days”, il cui titolo richiama non a caso la dimensione della vertigine. Il quadro sonoro offre una panoramica dall’alto sullo skyline dei sentimenti. In questo senso, il nuovo lavoro dei Notwist può essere inteso come un concept album, una lunga suite da consumare con ordine in quattordici piccoli bocconi. L’ascolto rapido e casuale è fortemente sconsigliato, almeno quando lo approcciate per la prima volta. Questo disco non è fatto per alleggerirvi le pulizie di casa o intrattenervi mentre fate la doccia. Pretende qualcosa di più. Qualcosa che di questi tempi, quando si parla di musica, abbiamo un po’ perso: concentrazione, ma soprattutto dedizione. C’è da sgomberare la testa, chiudere gli occhi per una cinquantina di minuti e sentire l’odore della sera penetrare nelle narici. Soli, ma anche in compagnia. Come per i viaggi.

Perché di questo si tratta, di un viaggio. Non la classica cavalcata psichedelica con tanto di apertura caleidoscopica sull’inconscio. No, tutt’altro. Il trip dei Notwist segue una parabola gentile, armoniosa, cristallina. Praticamente priva di curve. Niente strettoie né buche da evitare, ma un viaggio astronomico, di quelli che lasciano una scia nello spazio, una pennellata leggera.

Dentro “Vertigo Days”

Dopo un’introduzione strumentale, “Vertigo Days” decolla letteralmente con il secondo brano, Into Love / Stars, delicato e minimale nella prima parte, frenetico e al tempo stesso avvolgente nel ritmo motorik della coda finale. Exit Strategy For Myself, impacchettata in un suono ovattato, sembra provenire da un’altra cabina dell’astronave. Straordinaria anche la successiva Where You Find Me, più ancorata all’indietronica dell’indimenticabile “Neon Golden”.

Altre perle? Beh, ce ne sono parecchie. Per esempio il clarinetto di Angel Bat Dawid in Into The Ice Age, o la storia di un amore ribelle cantata in Oh Sweet Fire, con la partecipazione del polistrumentista Ben LaMar Gay, qui anche in veste di autore. E poi, e poi, le mie due preferite: Loose Ends, meravigliosa nel suo lento schiudersi, e Night’s Too Dark, una ninna nanna acidula che galleggia ancora una volta nella penombra, tra la paura del buio e il conforto della persona amata.

Prima di concludere occorre spendere qualche parola per la voce di Markus Acher. Perché va bene elogiare il contributo degli ospiti del disco, ma a rendere inconfondibile lo stile dei Notwist è proprio il timbro del leader, così fragile e malinconico da togliere il fiato. È anche grazie a questa voce se il viaggio di “Vertigo Days” riesce a innalzarsi seguendo una traiettoria verticale, in ascesa, ma in costante equilibrio.

Paolo