iosonouncane ira

Ci avrei scommesso. A due settimane dalla sua uscita, il terzo disco di Iosonouncane sta già scivolando nel più classico dei dimenticatoi. Non dico che vi sia sprofondato, per quello bisognerà attendere un altro paio di weekend, ma nel calderone dei commenti non mi pare che “IRA” sia più in trend topic. È bastata la vittoria dei Naziskin (scusate, Måneskin, e Orietta sia lodata) al “Tale e Quale Show” edizione Europa per voltare pagina e parlare d’altro. Eppure in quei giudizi a caldo, anzi caldissimo, si gridava addirittura al miracolo. Io me li ricordo bene. Capolavoro assoluto, disco epico, monumentale, un album che rivoluzionerà la storia della musica in Italia. Così ho letto, davvero. Eppure, dopo i primi tre giorni di entusiasmo alle stelle, l’interesse per l’ultima opera di Jacopo Incani iniziava già a scemare. Etichettato è stato etichettato. La spilla di nuovo genio gliela abbiamo attaccata. Ora basta, avanti il prossimo.

Eh no, non si fa così! Visti gli ardori iniziali, avremmo dovuto parlarne per mesi. Ma che dico mesi, per anni. Che sarebbe andata così, comunque, c’era da aspettarselo. Si chiama hype, e ne siamo tutti un po’ vittime. Ve lo ricordate? Era già successo con “Fetch The Bolt Cutters” di Fiona Apple, bollato in poche ore come disco del 2020 (ed eravamo soltanto ad aprile), oppure con il più recente “Carnage” di Nick Cave e Warren Ellis, già riposto nel cassetto dopo averlo osannato il giorno dell’improvvisa uscita. Si nota però che questa smania di incensare un disco per poi sbarazzarsi del problema in quattro e quattr’otto è una tendenza che vale soprattutto per le opere più complesse. Come quando vai al ristorante stellato, resti commosso di fronte a un ricciarello di ceci e timo con brodo di carote e sgombro arrostito, e poi torni a casa a farti mezzo chilo di pasta al pesto.

Ecco, al primo assaggio, l’ultimo disco di Iosonouncane è quella roba lì. Un piatto complicatissimo da cucinare (e forse anche da digerire), di cui riconosci il valore (e lo fai subito sapere a tutti), che fotografi per una bella storia su Instagram (e ci mancherebbe altro) e che conserverai nella memoria “per interi giorni tre”. Ma attenzione, il discorso cambia, almeno per quanto mi riguarda, quando lo stesso piatto ti viene riproposto, chessò, una settimana o due dopo. A quel punto sta solo a te, puoi confermare o ribaltare il risultato. Confermi che sì, effettivamente è un disco pazzesco, mai sentita prima una roba del genere, incredibile. Oppure ribalti tutto e dici che è un lavoro con troppe pretese, fondamentalmente inascoltabile, che alla fine della fiera non l’hai capito. Cose così.

“IRA”, dopotutto, parla proprio di questo. Della possibilità di non comprendere e di non poter essere compresi. La lingua utilizzata nei testi, che in verità sono ridotti all’osso, è soltanto ipotetica. Un misto di inglese, italiano, francese, arabo, spagnolo e tedesco. Il lessico è confuso, sbagliato, volutamente intraducibile. Le parole (Nanni, tappati le orecchie per un istante) non sono poi così importanti. Ciò che conta è il suono, la voce che diventa strumento. Il messaggio è contenuto non tanto in quello che si dice, ma in come lo si dice. Mica male per uno che fino al mese scorso veniva genericamente considerato un cantautore. Particolare, ma pur sempre un cantautore. Ci sbagliavamo. E dire che i germi di questa clamorosa svolta erano già ben annidati nei due dischi precedenti, soprattutto in “DIE”. Fate un esperimento: prima di approcciare questo nuovo mastodontico lavoro, andate a riascoltarvi Tanca. Troverete senz’altro una continuità.

Quanto al genere, “IRA” è decisamente inclassificabile. Psichedelia elettronica? Post-rock con punte di industrial? World music spolverata di new jazz? Ma che ne so, potremmo stare qui per ore a sparare supercazzole infinite, comunque non ne caveremmo un ragno dal buco. Lo stesso vale per i rimandi ad altri artisti (perché chiariamolo, Iosonouncane non è certo il primo a proporre un progetto di questo tipo). Proviamo a buttarne tre nel mucchio: Swans, Einstürzende Neubauten e Robert Wyatt. Qualcuno lo ha paragonato anche ai Radiohead di “Kid A”, forse per il piglio sperimentale, ma sinceramente mi pare piuttosto lontano. Insomma, fate voi, più o meno i riferimenti sono questi. Ma non si tratta di una scopiazzatura. C’è tantissimo anche di Jacopo Incani, inteso come produttore e arrangiatore. Roba di marca, originale. Plasmare, manipolare, picconare il linguaggio universale della musica è sempre stata una sua prerogativa, e qui non viene meno. L’unico che in passato è stato capace di rendere credibili, anzi assolutamente godibili, un paio di cover dei Verdena (leggi qui), non poteva deludere nelle vesti di gran maestro manovratore, oltre che di autore raffinato.

Addentrarsi ulteriormente nel disco, in senso puramente tecnico, è un’impresa inutile. Come fai a parlare delle singole tracce di “IRA”? Questa suona così, quell’altra suona cosà. No, non è un album che si presta a un’analisi tradizionale. Il terreno migliore su cui misurarlo è forse quello delle emozioni, di ciò che la musica dell’autore sardo riesce a smuoverti dentro. Affrontarlo non è uno scherzo, l’album dura quasi due ore. E anche per questo, per l’impegno che richiede e quello che ci è stato messo per realizzarlo, può definirsi un’opera politica. Ci vuole pazienza, quindi. Bisogna lasciare che tutte le sfumature di sapore si attacchino al palato ascolto dopo ascolto. Mettetelo alla prova, ‘sto benedetto disco, testatelo.

Io, per esempio, ho scoperto che non è per nulla obbligatorio ascoltarlo in religioso silenzio sul divano. Grazie al suo carattere ecumenico, alla sua sferza totalizzante, si adatta in modo sorprendente a situazioni molto diverse tra loro. La prima volta l’ho ascoltato durante una bevuta tra amici. La musica proveniva da un’altra stanza della casa. Sentito così, faceva uno strano effetto, direi piuttosto spaventoso. Sembrava quasi che in corridoio si stesse aprendo uno squarcio, un’apertura verso un mondo sconosciuto. Mi sono imbattuto così in quelli che credo siano due elementi cardine di “IRA”: l’ignoto e la paura. La sera dopo l’ho fatto partire mentre facevo un lavoro al computer. Ero distratto e lo sapevo, ma volevo capire se potesse funzionare anche da “sottofondo”. Beh, è andata alla grande. A emergere, questa volta, era la sua natura avvolgente, un po’ ambient (a proposito, Brian Eno è un altro riferimento da buttare nel mucchio), una sorta di abbraccio che conferisce energia. Poi l’ho ascoltato in cuffia, di notte, in solitudine, e ho percepito la sua gravità, come un peso che brano dopo brano ti trascina in basso nell’oscurità. Infine, per non farmi mancare nulla, l’ho provato anche una domenica mattina al risveglio. Sono durato poco, giusto un paio di pezzi, perché aveva qualcosa di disturbante. Che non per forza è un difetto.

Ecco. Tutto questo per dire che dopo due settimane di ascolti variegati, se dovessi riassumere la mia esperienza di “IRA” in quattro aggettivi, in questo momento mi giocherei proprio questi: spaventoso, avvolgente, oscuro e disturbante. Andrò avanti ad ascoltarlo, magari a piccole dosi, ma non ho intenzione di arrendermi. Sono quasi certo che ne verranno fuori altri, di aggettivi, altre emozioni. Dal vivo, poi, promette un gran bene. Lì sì, vorrei godermelo da seduto, ad occhi chiusi, con la band al completo sul palco. Il consiglio, comunque, è di lasciarlo maturare con calma. Non abbiate fretta. Per darlo alle stampe, Incani ci ha messo cinque anni di sudore. Rispettiamo il suo tempo e il suo lavoro. L’attesa viene spesso appagata.

Paolo