In occasione della data di ieri sera al Fabrique, abbiamo scambiato due parole con Eric Hilton, metà del duo trip hop “Thievery Corporation”. L’artista di Washington D.C. ci ha raccontato del loro periodo trascorso in Giamaica, di quanto possa essere difficile vivere di musica in questo periodo e… di Donald Trump!

Il nuovo album, “The Temple of I and I”, è stato scritto e registrato a Port Antonio e ovviamente contiene influenze giamaicane. Avete vissuto là per un anno, ma perché avete deciso di trasferirvi proprio in quella città? Il reggae e la musica giamaicana rappresentano qualcosa in particolare per voi?
Assolutamente. La musica e le tecniche di registrazione giamaicane hanno indubbiamente influenzato la musica elettronica e di conseguenza anche la nostra musica e così abbiamo pensato che fosse un buon posto dove andare a registrare e dove trovare la giusta atmosfera per avere quel suono, calarsi nell’ambiente, essere in contatto con quelle persone e assorbire da loro un po’ di tutto questo.

E il titolo dell’album cosa significa? Ha qualcosa a che fare con la cultura giamaicana?
Sì, è così. “I and I” in dialetto creolo significa “noi” quindi il titolo potrebbe essere inteso come “Il tempio di noi tutti” e penso che rappresenti il concetto di integrazione e il fatto che non esistano persone più speciali di altre o dei popoli eletti. Tutte le persone sono speciali , la musica è un elemento che aggrega i popoli e questo è uno dei suoi aspetti più belli.

Per quanto riguarda la musica, c’è una cosa che mi sono sempre chiesto. Come si sviluppa il vostro processo creativo? Inizia tutto con una semplice jam? Di solito con quale strumento iniziate a comporre i pezzi?
Eh, questa è una buona domanda. Solitamente io mi occupo del basso e dei beat, mentre Rob è l’addetto alle tastiere e alle melodie. A volte può non essere così, ma nella maggior parte dei casi componiamo in questo modo. Dopodiché, prima di tutto, cerchiamo di trovare un bel groove e poi decidiamo se portarla in fondo come traccia strumentale o se svilupparla dandole la classica forma-canzone con strofa e ritornello. A volte succede anche che ci facciamo scrivere i pezzi da qualcun altro, sebbene Rob sia un ottimo compositore, anche dal punto di vista del testo. Su questo ultimo disco, per esempio, c’è un pezzo bellissimo che ha scritto Rob, si intitola “Love Has No Heart”. Erano anni che avevamo una parte strumentale che ci piaceva molto, abbiamo visto che calzava a pennello con la linea vocale che aveva scritto e allora le abbiamo semplicemente unite!

Nell’album ci sono molte collaborazioni, sia con musicisti giamaicani che con artisti con i quali avevate già lavorato in precedenza come Notch e Lou Lou. Com’è che scegliete i musicisti con cui collaborare?
In fondo finiamo per lavorare sempre con le stesse persone. Abbiamo stabilito una lunga e fruttuosa collaborazione con Notch e Lou Lou e adesso con Puma, che ha scritto per noi alcuni pezzi e che ci accompagna in tour; con Shana Halligan, che viene dalla West Coast ed è una grande amica di Rob e con la quale abbiamo scritto diversi brani, penso tre in tutto. Valutiamo sempre l’opzione di collaborare con i grandi nomi della musica e nel passato lo abbiamo fatto, per esempio con David Byrne, ma in realtà è bello lavorare con le persone che conosci . In questo caso, visto che si trattava di musica giamaicana, abbiamo subito pensato di chiamare Notch. E’ un cantante con un gran talento ed è sempre un piacere poterci lavorare assieme.

Quindi quali sono gli artisti in questo album con i quali non avevate mai collaborato prima d’ora?
L’unica novità è stata Racquel Jones, un’artista di Kingston. L’abbiamo incontrata in studio in Giamaica, mentre registrava alcuni dei suoi pezzi. Aveva con sé delle demo che aveva inciso proprio lì, rappando sopra alcuni nostri pezzi e il risultato era fantastico, quindi abbiamo deciso di fare qualcosa insieme.

A proposito di collaborazioni… Stasera suonerete qui a Milano. Lo sapevate che anche Emiliana Torrini, vostra amica e collaboratrice di vecchia data, sarà in città per esibirsi dal vivo con il suo nuovo progetto? Pensate di incontrarvi?
Sì, è incredibile, l’ho saputo! Cercheremo di beccarci per un saluto, anche se i nostri show iniziano esattamente alla stessa ora e questo complica un po’ le cose.

Alcuni dei vostri album precedenti sono legati ad argomenti politici. Anche “The Temple of I and I” lo è in qualche modo? Cosa ne pensi, comunque, dell’attuale situazione politica americana?
Beh, molti dei nostri testi trattano tematiche sociali e sono delle vere e proprie analisi in questo senso. Generalmente si collocano al di là di quello che penso possa essere definito come politica, perché per politica intendo quello che riguarda i partiti politici organizzati. Che poi sono tutti uguali e, qualunque sia al potere, risulta comunque inaccessibile dal basso . E’ un grande e complicato meccanismo e non è possibile che una singola persona arrivi e riesca a cambiare qualcosa. Possiamo provare a cambiare e migliorare le nostre vite a livello personale, ma è un compito che dobbiamo svolgere da soli. Per quanto riguarda la politica americana, non sono rimasto sorpreso per niente. Ci sono un sacco di persone che vivono in posti davvero poco ospitali e che non se la passano per niente bene e hanno dunque pensato che Donald Trump potesse essere il loro salvatore. Forse hanno ragione, forse hanno torto. L’America non è Washington D.C., New York, Los Angeles o San Francisco. Quelle sono solo una piccola parte degli Stati Uniti, e l’altra, quella più grande, la pensa in modo differente.

Parlando di Washington D.C., nel 2010 hai girato un film indipendente intitolato “Babylon Central”, che è ovviamente legato alla vostra città, ma anche alla cultura giamaicana, penso. Puoi raccontarmi qualcosa in più su questa pellicola? In quel periodo eri già appassionato di musica giamaicana?
Sì, certo. Amo la musica giamaicana fin da quando sono bambino. Il film è stato giusto un passatempo estivo. Ho un amico che è un editor molto bravo e così abbiamo recuperato un paio di telecamere, abbiamo radunato un po’ di persone che non avevano mai recitato prima di allora e abbiamo girato il film. Non è stato un progetto che abbiamo preso sul serio, era giusto una cosa che ci piaceva fare. E’ davvero difficile fare un film, ci vogliono un sacco di persone. Far musica è molto più semplice [ride].

E il film di cosa parlava?
Il film si concentrava su tre storie diverse, ma alla fine l’argomento principale era la nostra città, la vita e la cultura di Washington D.C., le vicende di persone che conosco e le problematiche che hanno dovuto affrontare avendo vissuto in questa città. A dire il vero, penso che non abbia una vera e propria trama.

Per quanto riguarda i vostri show, vi risulta difficile portare sul palco i vostri pezzi? La vostra band da quanti elementi è composta? Avete dei cantanti che si esibiscono dal vivo o usate dei samples?
No, portiamo in tour con noi qualcosa come 5 cantanti. A dire la verità 6, perché il nostro percussionista è anche un cantante ed è la voce principale in due pezzi. Abbiamo anche la batteria, il basso e la chitarra, quindi si tratta di una vera e propria live band. Abbiamo eliminato alcune parti ritmiche per fare spazio ad altri strumenti suonati dal vivo e abbiamo campionato alcuni beat. E’ un buon modo per presentare la nostra musica dal vivo, perché in realtà non è poi così scontato. La nostra musica è composta da molte parti elettroniche e cercare di ricreare questa struttura dal vivo è molto difficile.

Il 2017 segna il vostro 22esimo anno di attività. Come vi sentite a riguardo? Qual è la cosa che è cambiata maggiormente dall’inizio della vostra carriera?
Beh, innanzitutto mi sento davvero fortunato per il successo ottenuto con i Thievery Corporation, per essere riusciti a costruire una fanbase e per il fatto che ci siano persone che apprezzano la nostra musica, perché all’inizio non ci saremmo mai aspettati una cosa del genere. Ci siamo messi a fare musica perché era quello che ci piaceva fare ed è ancora il motivo per il quale continuiamo a farla. Mi sento fortunato anche per avere iniziato in quel preciso momento storico, perché vent’anni fa l’ industria musicale ti permetteva di vivere di questo anche se eri solo un’artista indipendente, mentre adesso è molto più difficile. Noi riusciamo ancora a farlo perché abbiamo già un catalogo vasto e siamo in giro da parecchio tempo, ma penso che l’industria sia cambiata molto e che sia molto difficile per le band di adesso. Penso che il 99,9% delle persone che in questo momento decidono di occuparsi di musica, non possano riuscire a guadagnare abbastanza per vivere e dedicarsi solo a quello, e questo è un peccato.

E i vostri piani per il futuro, quali sono?
I nostri paini sono quelli di continuare a fare quello che facciamo. Abbiamo già dei nuovi brani che usciranno più avanti quest’anno. Sono b-sides ed extra di “The Temple of I and I”. Abbiamo scritto così tanti pezzi che avremmo potuto far uscire un triplo album [ride]. Abbiamo dovuto scegliere i nostri brani preferiti, ma ce ne sono tanti altri che ci piacciono un sacco e… usciranno ad Agosto!

A cura di Alessandro Franchi