Il debutto degli F4 è uscito già da qualche mese e prima di scriverne ho potuto dedicargli tempo, attenzione e ascolti, lasciandogli la possibilità di stratificarsi con calma sotto pelle. Non è stata una scelta: era l’unico modo possibile di avvicinarsi a questo disco. Quella degli F4 è musica delicata, gentile, lenta, che ti entra dentro chiedendo quasi il permesso e poi non se ne va più. Forse perché “Camaò” è stato concepito nel cuore di un parco naturale, dentro una casa di pietra posta in fondo a una vallata profonda, prendendosi tutto il tempo che serviva (quasi cinque anni).
Il lavoro di Pietro Giorgetti, che scrive testi e musica e suona insieme a Riccardo Teodori (erano la metà dei
Motherside), è paragonabile a uno score cinematografico per vecchi Super 8 sfocati, dimenticati in certi scatoloni impolverati in soffitta, di quelli che quando li ritrovi ti sembrano provenire da un’altra epoca, da un altro mondo.
Il titolo dell’album, “Camaò”, è un’esclamazione vernacolare che può esprimere sorpresa, disfatta, rabbia sommessa, voglia di rivincita; un intercalare che denota un’attitudine. “Camaò” ha la calma imperturbabile dello stereotipo dei marchigiani: tranquilli e ostinati, poco appariscenti e molto pervicaci, semplici e di solito poco propensi ai fronzoli.
Il mini album vive di elementi essenziali, impastato con pochissimi ingredienti minimali e “campagnoli”, che compongono una musica scarna, quasi nuda. Una musica che con pochissimo, e grazie anche al lavoro sottotraccia di Giuseppe Molinari, che arricchisce il tutto con fruscii e rumori ambientali, riesce ad evocare atmosfere morbide e un mood notturno, come nella bellissima Lucciole o nella languida Metadò.
Tutto l’album gira attorno a delle chitarre scheletriche che insistono su pochi accordi, un basso ovattato, ritmi pacati; note che si innestano inesorabilmente nel vostro ipotalamo e rivendicano ascolti come tutte le dipendenze che lo costringono a produrre dopamina. Le canzoni di Giorgetti & Co. potrebbero essere la filiazione spuria del repertorio più introverso di Joao Gilberto suonato dagli Slint sotto l’effetto di troppo Varnelli. Ne sono prova Anche No e Monè, dove mi hanno ricordato anche episodi made in Italy come una certa psichedelia narcotizzata a là Goodmorningboy.
I testi sono abbastanza vaghi da potercisi immedesimare, abbastanza personali da restare un po’ avvolti da un’aura di mistero. Raccontano ricordi di piccole storie di provincia, autostima in crisi e dubbi esistenziali, rapporti problematici, solo accennati, con le persone e con lo scorrere del tempo. Il tutto avvolto da una sorta di pudore, che rende “Camaò” intimo e caldo. Scorre nelle parole degli F4 uno stupore placido, forse quello candido che abbiamo noi provinciali, almeno da giovani. L’uso sperimentale del dialetto marchigiano in alcuni brani non sortisce l’immaginabile effetto “comico”, ma si integra a perfezione con la circolarità di questa post-bossanova in salsa emo, mentre la voce di Pietro sembra provenire da un’altra dimensione, come filtrata dalla memoria. C’è un tono di understatement che pervade tutto il disco e lo rende irresistibile.
Trova spazio in chiusura anche la cover di un brano dei Kurnalcol, leggende corregionali della band e indimenticati inventori del Vi’ Metal; gli F4 spogliano un loro classico di quell’irruenza sconcia alla Ozzy Osbourne, trasformandolo in un altro momento bucolico e venato di una malinconia dolce e sorridente.
Un debutto solido, fatto di scelte coraggiose, un impatto avvolgente che non ha bisogno di strillare la sua rabbia o i suoi tormenti, un debutto che impressiona per la sua maturità e che reclama (sottovoce) la vostra attenzione. Perché se la merita “’mbel po’”.
Andrea Bentivoglio

Mi racconto in una frase: “Padre di due figli, di una radio, di un po’ di programmi radiofonici e numerosi dj set”
I miei tre locali preferiti per vedere Musica: Lo Sverso, Circolo Arci Il Corto Maltese, Sonic Room
Il primo disco che ho comprato: Run DMC – Tougher Than Leather
Il primo disco che avrei voluto comprare: Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso: ho vissuto quasi un anno in Portogallo e quasi nove in Grecia. Mettevo i dischi anche lì.