Un giudizio a bruciapelo
A chi non ha tempo né voglia di leggere questa recensione, lo diciamo subito: il nuovo disco dei Cloud Nothings è più che buono. Poteva essere più incisivo, questo sì, ma ha tutte le cosine al posto giusto. Nessuna sbavatura, insomma. Proveremo a spiegarlo meglio più avanti, ma in poche parole si tratta di una sintesi non dico perfetta, ma quasi, delle diverse anime della band. Rabbia e dolcezza. Malinconia, esistenzialismo da cameretta e voglia di un po’ di evasione. Vista la caratura dei Nostri, però, un risultato del genere, cioè ampiamente sopra la sufficienza, era abbastanza prevedibile. Giusto per intenderci: quando in campo scende un fuoriclasse, dai sempre per scontato che giocherà meglio degli altri. Il fatto è che da lui ti aspetti il colpo partita, la magia, la giocata improvvisa. Ecco, questa volta la magia non c’è stata. Tutto qui. Ma la vittoria, i Cloud Nothings, l’hanno comunque portata a casa.
Una doverosa premessa
Bene. A chi ha resistito fin qui, tocca sorbirsi il mappazzone. Innanzitutto una doverosa premessa. La band capitanata da Dylan Baldi è senza dubbio tra i migliori interpreti in circolazione del cosiddetto rock alternativo. Una categoria non meglio definita, che nel caso dei Cloud Nothings presenta, al contrario, connotati ben precisi. Raccolta l’eredità dell’ultima epoca d’oro dell’indie-rock (quella degli anni Zero), la compagine nata in Ohio ha saputo rimescolare le carte inserendo nel mazzo tre assi pigliatutto: noise, emo e college-rock. Una formula semplice, ma dannatamente accattivante, che trasforma i testi post-adolescenziali del leader in veri e propri inni generazionali.
L’apice di questo flusso continuo di emozioni, schitarrate punk, “sussurri e grida” (per dirla con il titolo di un film capolavoro), è considerato, credo all’unanimità, “Attack On Memory”, il terzo disco della band. Non è un caso che all’epoca, era il 2012, i Cloud Nothings si avvalsero della sapienza alchemica di Steve Albini in cabina di regia. Il frontman degli Shellac, a conti fatti, seppe rimodulare il loro suono, sgrezzandolo sul lato della produzione e imbarbarendolo in fase compositiva. La carriera del gruppo si sarebbe poi sviluppata in autonomia lungo quegli stessi binari, pur increspandosi (splendidamente) in qualche gancio post-hardcore di cui ancora portiamo i lividi (“Here And Nowhere Else”, “Last Building Burning”).
Dentro il disco
Arriviamo così a “The Shadow I Remember”, uscito in queste settimane per Carpark Records dopo il recente esperimento di “The Black Hole Understands”, realizzato in casa nel 2020, in pieno lockdown, attraverso la sovraincisione delle singole parti registrate dai membri della band. Per questo nuovo disco, invece, i Cloud Nothings sono tornati a fare sul serio. Hanno riaperto la loro vecchia agendina e rispolverato il numero di Steve Albini. Questa volta, però, la band aveva già tutti gli ingredienti nella dispensa. Il tocco del maestro, dunque, è stato più delicato, gentile, superficiale. Come quando il piatto è già pronto per essere servito e il capo-chef lo aggiusta soltanto di sale.
Il sapore predominante è quello di un indie-punk melodico, venato di inquietudine e incertezza nel futuro. Il brano di apertura, Oslo, è il manifesto di questo approccio. Partenza in sordina, qualche nota di piano, la tensione che sale nel ritornello e poi il decollo disperato, con la voce ruvida e le chitarre che gracchiano nell’amplificatore. Nothing Without You (con Macie Stewart degli Ohmme) disegna una traiettoria pop meno complessa ed è forse l’unico vero singolo del disco. The Spirit Of non si discosta molto da questo schema, se non fosse per la deriva post-grunge che ne caratterizza la seconda parte. Interessante anche Nara, un tentativo di ballad sui generis, forse la prima mai scritta da Dylan Baldi, che vaga leggera dalle parti dei Car Seat Headrest.
In generale, i Cloud Nothings si fanno preferire quando alzano il ritmo e anche i loro movimenti risultano più frenetici, come in Am I Something o nella successiva It’s Love. È in questi episodi che la batteria di Jayson Gerycz si prende buona parte della scena e traina l’intera band picchiando durissimo sui sentieri ghiaiosi di un punk più arido, a tratti estremo.
Lo stesso vale per la svolta che i Cloud Nothings riescono a imprimere nel finale di tutti i loro brani. Sembra quasi un’ossessione, un dovere a cui bisogna assolvere ad ogni costo: comunque vada, la canzone deve chiudere sempre e inesorabilmente con il botto. Nella conclusione di A Longer Moon, per esempio, la chitarra e un inedito synth vanno a schiantarsi contro un muro dopo una corsa di un minuto buono. In quella di The Room It Was, l’ultima traccia del disco, Baldi urla le parole che danno il titolo all’intero lavoro, come per chiudere il perimetro costruito intorno alle proprie insicurezze.
Un giudizio finale
Degli undici brani che compongono “The Shadow I Remember”, però, non tutti lasciano davvero il segno. L’album è godibilissimo, per una buona metà anche molto emozionante. Ma, come si diceva all’inizio, sembra mancare qualcosa. Un guizzo, una stoccata che lo innalzi al livello dei loro lavori migliori. Non c’è una Wasted Days, per capirci, e nemmeno una Stay Useless o una Enter Entirely. Ma pazienza, va bene così. Anzi, per fortuna ci sono ancora artisti come i Cloud Nothings. Gente che sotto il sei al sette non ci va neanche se il giorno prima del compito in classe si è scassata di tequila in sala prove.
Paolo
Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.