Conor Oberst lo sta dicendo in tutte le interviste, la scelta di fare un nuovo disco a nome Bright Eyes, dopo “The People’s Key” del 2011, è maturata durante una cena natalizia con Nate Walcott e una videochiamata emozionata, e forse un po’ alticcia, a Mike Mogis. A riprova del fatto che siamo di fronte a una scelta di cuore e alcol, non certo ad un’operazione commerciale o di marketing.
Questo disco era necessario? No. Ne sentivamo il bisogno? Sì! Non che Conor ci abbia mai fatto mancare la sua musica in questi anni, tra dischi solisti, progetti paralleli (Desaparecidos) e collaborazioni riuscite (Better Oblivion Community Center con Phoebe Bridgers), è stato una presenza costante nelle nostre vite, quantomeno nella mia. Tornare però a vedere scritto “Bright Eyes” procura una certa emozione e offre contestualmente alcune garanzie, forse illusorie, ma sensate.
“Down in the Weeds, Where the World Once Was”, del resto, suona molto “Bright Eyes” e, come sempre quando si tratta della band di Omaha, si ha come l’impressione di trovarsi al cospetto della perfetta colonna sonora per i tempi che stiamo vivendo. O subendo. La consueta propensione a narrare la realtà è volta in questo caso ad accompagnare l’apocalisse, la fine dei tempi, la tragedia umana, in maniera quasi parossistica, portata a una bellezza esasperata.
Non inganniamoci però, non siamo di fronte all’orchestra del Titanic, piuttosto al Narratore di Fight Club, che osserva le esplosioni, colpevole, compiaciuto e rassegnato. Il morale non è alto, Conor esce da un periodo difficile, in cui aleggiano ancora forti disagi e conseguenze psicologiche legati alla perdita del fratello e alla separazione dalla moglie, con cui rimane comunque in buoni rapporti, tanto da farla partecipare al disco.
La ricetta sonora non si discosta drasticamente da quella a cui eravamo abituati, la scrittura è più condivisa, ma la resa di Oberst rimane spudoratamente emo, sofferta, senza possibilità di salvezza o redenzione. La strumentazione utilizzata è un po’ la summa della storia dei Bright Eyes, offre un impatto più vicino a “The People’s Key” che a “I’m Wide Awake, It’s Morning”, con l’ispirazione rivolta a “Fevers and Mirrors”. Se vogliamo proprio suggerire una nota stonata, forse la trovata di inserire il basso di Flea, che immagino compagno di bagordi losangeleni, non è stata una scelta brillantissima, pur non levando niente alla bellezza delle canzoni. In compenso il video di Mariana Trench è di uno splendore inarrivabile.
Pare che Oberst durante il lockdown abbia ascoltato varie volte l’audio libro di “Moby Dick”, io ho iniziato a leggerlo da poco, vi saprò dire. Avevo un biglietto per il loro concerto di Dublino di questo settembre. È stato spostato al 2021. Chissà.
The closing bell death tolls
Hear the market crash
A crying trader swears he’ll get out of the game
The cowboy drinks himself to death
Fresh out of rehab
While they’re loading all the rifles on the range
Carlo Pinchetti
Mi racconto in una frase:
Campione d’istituto di ping pong in prima media, distrattamente laureato in Filosofia, papà, scrivo canzoni con la chitarra e le canto.
I miei tre locali preferiti per vedere musica:
Ink Club (Bergamo), Biko (Milano), Bloom (Mezzago)
Il primo disco che ho comprato:
Nirvana “Bleach”
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Nirvana “Bleach”
Una cosa di me che penso sia inutile ma ve lo racconto lo stesso:
A 14 anni sono stato selezionato per l’All Star Game del camp estivo di basket dell’Università di Syracuse, ma non ho potuto giocarlo perché avevo l’aereo di ritorno.