Un universo in espansione
Mi piacerebbe fare ascoltare i Black Country, New Road a un rocker duro e puro. Che ne so, un fanatico di classic rock, un affezionato ascoltatore di Virgin Radio. Di quelli che se gli tocchi gli Aerosmith fanno un casino della madonna. Vorrei farli ascoltare a chi vive di solo punk. Quello tradizionale, anzi primordiale, nelle sue forme più disparate. Infine ai jazzofili. Sì, anche a loro. Meglio se avvezzi alla fusion, ma anche a tutti gli altri.
Beh, di primo acchito, come amava affermare un mio vecchio professore, si direbbe che a queste tre o quattro categorie che ho messo in fila, i Black Country, New Road non possano in alcun modo piacere. Troppo cervellotici per i rockers, troppo tecnici per i punk, troppo “leggeri” per gli amanti del jazz. È il grande problema di chi maneggia la materia grezza per cavarne fuori qualcosa di lievemente diverso. Non un superamento in termini artistici, questo è tutto da vedere. Ma un passo in avanti, quello sì. Un ibrido, un’evoluzione, un dopo. Ecco, dopo è la parola chiave. E il trattino è il suo gingillo preferito. Post trattino rock, post trattino punk. Un inno alla successione. Il post trattino jazz non esiste, non ancora, ma abbiamo certamente il free jazz e il fantomatico nu-jazz.
Insomma, questa storia del “dopo qualcosa” non è che piaccia proprio a tutti. E si dà il caso che i Black Country, New Road siano oggi i più titolati esponenti del “post trattino tutto”. Dentro la loro musica soffia un vento che si insinua tra i paletti della tradizione e passa oltre. Nulla di trascendentale. Nulla di nuovo, se volete. Qualcuno ci aveva già pensato, eccome se ci aveva già pensato. Ma che il loro esordio discografico “For The First Time”, uscito per Ninja Tune, sia un frullatone di revisionismo moderno, ebbene, questo è un dato di fatto incontrovertibile. Nelle sei tracce (poche) che compongono l’album ci puoi sentire una marea di influenze: gli Slint e i Tortoise, i Pere Ubu e i Tuxedomoon, i Naked City, i Jaga Jazzist e perfino Mark Kozelek.
Tutto questo per dire che i riferimenti sono talmente vari e la materia talmente spuria e mescolata, che forse, magari a un secondo ascolto (il secondo acchito, chissà se si può dire), anche i più tradizionalisti potrebbero trovarci qualcosa di buono. In effetti, uno dei segreti della band originaria del Cambridgeshire è proprio questo: il costante richiamo a qualcosa che ci è già familiare, ma che rimane sempre sottotraccia, mascherato, come un messaggio subliminale.
Un’operazione che tuttavia sembra accadere indipendentemente dalla volontà del gruppo, che resta autentico, genuino. A confermarne l’efficacia è il clamoroso successo che questi sette musicisti inglesi avevano già raggiunto un annetto fa con l’uscita dei primi singoli. Difficile interpretare le parabole dell’hype, può anche essere che siamo caduti tutti nella trappola del marketing, ma va detto che se una cosa piace, e continua a piacere anche a distanza di mesi, un motivo concreto ci sarà pure. Non saranno mica tutti fessi.
Si aggiunga che il disco è molto ben suonato. Tecnica e talento non mancano a ‘sti ragazzi, e lo si intuisce fin dalla prima traccia, non a caso intitolata Instrumental. La batteria di Charlie Wayne fa subito irruzione per inerpicarsi in un crescendo quasi tribale, ma che in realtà trae origine dal genere klezmer, la musica tradizionale degli ebrei dell’Est Europa. L’aria, però, è tutt’altro che allegra e spassosa. A tratti ricorda la colonna sonora di un poliziesco, sulla falsariga dei nostri Calibro 35. E tra una ripartenza e l’altra del tema portante si respira già l’atmosfera plumbea che avvolgerà l’intero lavoro, che in questo senso potremmo definire dark, di un gotico moderno e schizofrenico.
Un disco tossico e inquinato
Ci sono un paio d’altri elementi che rendono questo lavoro tossico e al tempo stesso dopante. Innanzitutto l’architettura della canzone, che in perfetto stile post-rock sfugge allo schema classico per accartocciarsi più volte su se stessa. Il traguardo, per buona parte dei brani, resta pur sempre in salita. Ma anche dove l’orizzonte è ben visibile, i Black Country, New Road preferiscono raggiungerlo in un crescendo di suoni ed emozioni. Il sassofono scarmigliato di Lewis Evans e il violino di Georgia Ellery gonfiano le ampie parentesi strumentali fino a farle deflagrare nel noise. Altrove, in complicità con le chitarre e i synth, ricamano paesaggi solo in apparenza distensivi.
D’altronde, a mettere in chiaro che l’affare si fa tutt’altro che semplice ci pensa Isaac Wood, frontman per caso di una delle band più in vista del momento. Dico per caso perché si è ritrovato con le redini in mano in seguito all’improvviso addio del precedente leader, Connor Brown. Quest’ultimo fu accusato di molestie sessuali quando la band si chiamava ancora Nervous Conditions. Correva l’anno 2018. Di qui l’abbandono di Brown, lo scioglimento definitivo del gruppo, la rinascita con un nuovo nome e la promozione di Isaac Wood nelle vesti non più soltanto di chitarrista, ma anche di cantante (proprio a questo episodio sembra accennare in Athens, France, quando canta: «I have learned so little from all I lost in 2018»).
Fatto sta che alla luce di questo esordio, la scelta della voce sembra aver pagato parecchio. Il timbro di Isaac Wood, così fragile, sofferto, ma al tempo stesso intenso e pregno di coscienza, è un valore aggiunto indiscutibile. Per non parlare dei testi, bozzetti di vita vissuta tra il tragico e il grottesco, poesia e racconto romantico, che si adattano alla perfezione allo spoken word dell’artista. L’approccio alla scrittura è quello modaiolo, e qui sì un po’ ruffiano, che prevede l’abbondare di citazioni, critiche velate e storie abitate da personaggi reali, meglio se presi in prestito dall’immaginario pop (Fonzie, Kanye West). Strofe infarcite con i nomi di vecchi colleghi, citati anche loro come feticci, da Scott Walker a Richard Hell. La ripresa quasi letterale di un verso di Phoebe Bridgers («Why don’t you sing with an english accent? Well, I guess it’s too late to change it now»). E ancora, due sarcastici omaggi, il primo alla band che li ha maggiormente ispirati («And fled from the stage with the world’s second-best Slint tribute act») e il secondo a quella con cui condividono il titolo di next big thing britannica («I told you I loved you in front of Black Midi»).
Ma non mi va di soffermarmi sulle singole tracce. Perché la verità è che da Science Fairs a Sunglasses fino alla conclusiva Opus, il flusso è continuo. Le differenze ci sono, per carità, il percorso resta per sua natura irregolare, ma in fin dei conti l’album va racchiuso in un unico abbraccio. I fili conduttori sono la tensione sempre al limite e il senso di abbandono nella terra che dà il nome alla stessa band. Il Black Country, un’area industriale puntellata di miniere di carbone, fonderie per il ferro e l’acciaio, ciminiere fumanti, la fuliggine che si deposita sui tetti delle auto parcheggiate. Un brutto posto da cui stare alla larga. Un bollino nero sulla carta geografica, ma anche un luogo dell’anima che prima o poi ci tocca attraversare. I Black Country, New Road provano ad accompagnarci proprio lì. Quindi mettetevi comodi, il viaggio è appena cominciato.
Paolo
Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.