Questo nuovo album dei Black Country, New Road ha un retrogusto amarognolo. Non ho detto cattivo, ma amarognolo. Insomma, è ficcante, quasi lacrimogeno. Nel senso delle lacrime che potrebbe stimolare. E il motivo è ormai noto. Tre o quattro giorni prima dell’uscita del disco, Isaac Wood (cantante, chitarrista e autore) ha annunciato di aver abbandonato la band. Così, di botto, senza preavviso. La decisione non ha nulla a che fare con il rapporto che aveva con il gruppo, anzi. Sembra più legata alla paura e all’insicurezza che prova un artista di fronte all’improvvisa notorietà. Si tratta di una scelta nobile, rispettabilissima. Ma è anche una notizia che cambia decisamente le carte in tavola.
Isaac verrà rimpiazzato? E come si evolverà il suono dei suoi ex compagni? Certo, è troppo presto per dare delle risposte. Il futuro è imprevedibile. Il presente, però, è già scritto. Tanto che ci ritroviamo tra le mani un disco che è allo stesso tempo fresco d’uscita e vecchio per formazione. In questo senso è amarognolo: mentre lo ascolti compiaciuto, non puoi prescindere dal fatto che si tratta già di acqua passata. Un po’ amara, appunto. Tanto più che la band ha già dichiarato che questi brani non saranno mai più suonati dal vivo. Che palle.
Ma di queste canzoni bisogna comunque parlare. Bisogna parlare di musica nel suo insieme. Perché “Ants From Up There” appare come un’opera compatta, ricamata su dieci tracce tenute insieme da un minimo comun denominatore: il Concorde. Una specie di jet supersonico ormai in disuso, che viaggiava al doppio della velocità del suono. Sarà forse l’aereo fotografato in copertina? Il modellino intrappolato in quella bustina di plastica? Forse, ma anche no. Il Concorde potrebbe essere soltanto una visione, un ricordo sfumato, la metafora di una storia finita troppo presto. Ciò che traspare dai testi di Isaac Wood è l’idea di un qualcosa di maestoso che a un certo punto, in lontananza, diventa piccolo piccolo. Una meraviglia dei cieli, o dei cuori, di cui ormai si scorge soltanto la scia.
Il disco si apre con un’introduzione strumentale in pieno stile klezmer, come accadeva in “For The First Time”. Poi arriva il brano più divertito e canonico dell’intera produzione dei Black Country, New Road. Chaos Space Marine, infatti, procede in modo scherzoso alla maniera del primissimo Bowie, lanciandosi in un ritornello che starebbe bene in “Funeral” degli Arcade Fire. La canzone, dagli orizzonti futuristici, spiana la strada all’ingresso del Concorde, che nell’omonimo singolo diventa l’assoluto protagonista. Qui la band inglese dà sfoggio di tutta la sua bravura, in un saliscendi da brividi di emozioni e suoni.
Ma non aspettatevi il brusio post-punk dell’esordio. In “Ants From Up There” i toni si fanno più pacati, l’incedere più sofferto, le parentesi di silenzio più calibrate e spaziose. Si parte da un arrangiamento essenziale per chitarra, lo si decora lentamente con qualche tocco di violino, poi con il sax e infine la batteria, che a volte riordina il suono e altre lo arrugginisce (notevole l’assolo free jazz in Snow Globes). Lo schema, insomma, è sempre quello: un crescendo di phatos e colori, che si sviluppa in brani spesso molto lunghi e dilatati.
Ironia della sorte, la voce conquista parecchio spazio rispetto al precedente lavoro. È parte integrante del tutto. Anzi, ha un ruolo fondamentale, pur mantenendosi per lo più sul piano del lamento, del dramma cantato e dello spoken word poetico. Isaac Wood mancherà, eccome se mancherà. Perché i suoi testi, anche questa volta, sono bellissimi. Bozzetti di vita quotidiana, riflessioni private, dialoghi interiori che potrebbero benissimo valere come messaggi universali. Da ascoltare come un audiolibro, da rileggere come un diario di bordo cosmico scritto dalla cabina di comando del Concorde.
Bread Song, per esempio, racconta di quell’amante che gli vietò di mangiare un toast a letto (I never felt the crumbs until you said: “This place is not for any man, nor particles of bread”). E poi c’è il pezzo forte del disco, The Place Where He Inserted The Blade, il brano che Nick Cave non riesce più a scrivere da troppo tempo, ispirato e scritto (parola dell’autore) in risposta a I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You di Bob Dylan.
Non si può negare che il secondo album dei Black Country, New Road richieda un’attenzione particolare. Non ascoltatelo sotto la doccia, ecco, perché è troppo complesso per uno shampoo Pantene. Vi serve un divano, un letto sfatto la domenica mattina, o un viaggio solitario lungo almeno un’oretta. Cuffie ben salde, volume alto ma non troppo, bicchierino di qualcosa a portata di mano. È un disco amarognolo, lo dicevamo, ma anche impegnativo. Giudicate voi se si tratta di un pregio o di un piccolo limite. Non è un capolavoro, ma ci va vicino in più passaggi. Diciamo che aspira a diventarlo, magari fra qualche anno.
Paolo

Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.